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Buonomo (Lateranense): “La risposta al virus è un’Università resiliente”

Amerigo Vecchiarelli

“Un tempo di incertezza! Così si è imposto il coronavirus nella vita di tanti e nelle diverse attività, disorientando punti di vista che ritenevamo insostituibili nel nostro quotidiano e portando un senso di smarrimento, almeno iniziale”. Non ha dubbi Vincenzo Buonomo, rettore della Pontificia Università Lateranense, nel descrivere l’impatto del Covid-19 sul sistema universitario e in particolare sull’Ateneo pontificio di cui è alla guida dal giugno del 2018. “Così – prosegue – può leggersi l’impatto che il virus ha avuto anche sull’Università, luogo privilegiato del sapere, che nelle sue diverse articolazioni si è immediatamente concentrata a capire origine, effetti, conseguenze di un pericolo invisibile, ma allo stesso tempo con effetti realmente drammatici”.

Un impatto violento che vi ha costretto a prendere, da subito, misure adeguate.

Sì e questo ha significato far “partire la corsa” per togliere spazio al nuovo nemico, per arginare le sue devastazioni e i suoi ostacoli. Quelli che non permettevano di continuare l’attività di sempre fatta di passaggi ripetuti, di movimenti noti, di procedure ormai standardizzate.A fermarsi è stato quel moto ripetitivo, soprattutto capace di operare da solo, di produrre effetti anche senza il contributo di alcuno.Lezioni, esami, didattica, ricerca, approntati o realizzati in modo preciso e senza possibilità di errore, perché ogni passaggio era ormai noto, in un attimo sono sembrati impossibili da realizzare. Abbiamo dovuto procedere alla chiusura, inesorabile, dei corsi, delle lezioni, dell’attività accademica, accorgendoci però che il virus ci chiamava a qualcosa di nuovo e allo stesso tempo ci poneva delle grandi questioni. Anzitutto cosa fare nell’immediato? E poi, in prospettiva, cosa fare sul medio e lungo termine? Questi gli interrogativi risuonati e posti alla base dell’azione conseguente.

Qual è stato il primo passo?

Mentre l’ateneo si svuotava non solo di persone ma quasi di funzione, ci è venuta in aiuto l’originale idea di Universitas studiorum: il sapere, lo studio, la ricerca senza confini, senza i legami con il solo spazio materiale.Certo, bella come idea, come modo per recuperare la dimensione della circolazione del sapere. Ma come renderla fattibile? E soprattutto con una sede vuota non si perde la possibilità di comunicare il sapere, almeno nei modi a cui eravamo abituati?  E allora si è pensato ai rimedi immediati per proseguire da una parte nell’insegnamento e, dall’altra, per dare agli studenti la possibilità – ma specialmente l’interesse – di fruire della formazione in modo diverso, utilizzando gli strumenti offerti dalla tecnica. E questo con una convinzione e un interrogativo. La convinzione: non sarebbe stata la stessa cosa per i docenti e gli studenti, ma era la soluzione, piuttosto che vedere riproposti sulle cattedre on line (fino a lì si era spinta la tecnica nell’attività accademica) schemi, appunti, power point non più in grado di comunicare e trasmettere il sapere. L’interrogativo invece è stato: quanto durerà? La comodità della scrivania di casa non riusciva infatti a compensare la necessità di riproporre il sapere con un linguaggio e un metodo diverso: quello richiesto dauna Universitas studiorum non più residente, ma certamente resiliente rispetto ad un virus che ne minaccia l’esistenza.

Dal pensiero all’azione: quali le iniziative messe in atto?

Nonostante le non poche difficoltà, vista l’idea di ‘Universitas’ che si confonde anzi si plasma in una comunità di docenti e studenti che si ritrovano, si interrogano, discutono sulla conoscenza e sul sapere, con una corsa frenetica consapevole dell’obiettivo da raggiungere,la prima azione è stata quella di dotare gli studenti di ulteriori strumenti per lo studio e l’apprendimento.La didattica on line è diventata lo strumento più agevole, soprattutto per dare continuità alle diverse offerte formative e ai legami della “classe” divenuta virtuale, ma con una perplessità: è questa la strada giusta? E, ancora, gli effetti di tale comunicazione quali sarebbero stati? E, poi, quali risultati si sarebbero conseguiti?

Che risposta avete avuto dal corpo docente e dagli studenti?

È subito emerso che

se il docente si interrogava sulle possibilità offerte da questa nuova tecnica al suo insegnamento, gli studenti si suddividevano in diverse categorie.

Quelli entusiasti di poter utilizzare smartphone e pc, restando ai loro tavoli di studio; quelli costretti da una mail ad essere presenti (perché il docente lasciava alla tecnologia il compito di fare l’appello); o, ancora, quelli che inizialmente persi di fronte a un cambiamento strutturale – il recarsi in Università per fare lezione – si lasciavano poi condurre ai benefici di una comunicazione del sapere altrettanto efficace, pur se diversa. Così gradualmente si è strutturato uno standard, inteso come numero di lezioni, nuova progettualità, innovata capacità del docente di esprimersi e dello studente di partecipare ed entrare in sintonia con una teoria, un’analisi delle fonti, un’interpretazione. Uno standard, certamente oscillante tra un minimo e un massimo, non un traguardo strutturato.

E guardando al futuro?

Guardando già all’immediato futuro, forse tutto può riassumersi nella frase che sentiamo riecheggiare in queste ore: nulla sarà più come prima.Certo, non lo sarà per i docenti che avranno fatto esperienza ed acquisito competenze nuove nell’approccio didattico e nell’attività di ricerca. Non lo sarà per gli studenti, che avranno colto il diverso modo di trasmissione del sapere. Ma soprattutto non si potranno abbandonare i risultati acquisiti e cioè la capacità di sentirsi Universitas studiorum anche attraverso uno schermo. E questo per tante ragioni, ad iniziare nel breve e medio termine dal dover applicare severi criteri di distanziamento sociale, dal dover ricorrere a strumenti per proteggere i contatti, dal sedersi nelle aule mantenendo la giusta distanza.

Quanto durerà non è dato sapere. Per una realtà fatta di studenti provenienti da 106 Paesi è difficile, anzi impossibile dirlo.

Forse potrà coincidere con la “dichiarazione di fine pandemia a livello mondiale” emessa dal solo organo competente: l’Organizzazione mondiale della sanità. Di tutto questo nell’Università ne siamo coscienti.

Tra tanta incertezza c’è qualcosa su cui continuare a costruire?

Almeno una certezza l’abbiamo (importante e forse necessaria in questo momento): aver individuato uno strumento che ci consente di continuare una missione, di svolgere una funzione educativa non creando una comunità virtuale, ma utilizzando “funzionalmente” lo strumento telematico per proseguire nell’idea di Universitas studiorum. E come alle sue origini legò gli studenti ai docenti in nome del sapere, oggi dona all’avvenire la possibilità di porre accanto al tradizionale (e certamente efficace) sistema della lezione in presenza, la contemporanea trasmissione on line e necessariamente quella a distanza, per colmare le differenze del fuso orario. E soprattutto, senza mai dimenticare che

l’Universitas resta il luogo in cui si coniuga il sapere con la conoscenza,

l’apprendimento con la ricerca, la formazione con l’insegnamento. Tutto questo è ancor più vero per una Università, come la Lateranense, dilatata dalla sede fisica “in urbe” alla dimensione della cattolicità. Di essere cioè centro di formazione che, con gli studi di Teologia, Filosofia, Diritto canonico, Giurisprudenza e Scienze della pace (voluto quest’ultimo da Papa Francesco), “si propone in maniera particolare di essere al servizio del Romano Pontefice e di offrirgli con diligenza gli aiuti conformi alla propria natura, per il governo e il ministero pastorale della Chiesa universale e della diocesi di Roma e per la formazione qualificata di ecclesiastici, religiosi e laici”, come è scritto nei suoi Statuti.

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