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Direttore Pompei: Vi racconto San Benedetto al tempo delle “comete”

 

di Pietro Pompei

 

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Mentre il “coronavirus” ci inchioda a casa, i ricordi di tempi tristi della nostra fanciullezza la fanno da padrone specie quelli che sanno di morte. Oh la primavera con il rombo degli aerei bombardieri, della sirena che ci cacciava di casa, con la luce che mancava e il ricorso alle acetilene, con Benedetto a strapparci per molti giorni le lacrime…

Il lamento che a momenti si faceva grido disperato, è una componente dei ricordi della nostra infanzia, cresciuta in dimestichezza con la morte. Si viveva ammucchiati nelle strette strade della “vecchia” S.Benedetto e come la gioia, così il dolore li si comunicava a voce, diventando il linguaggio di tutti. Per i bambini era una variante al monotono andare quotidiano, il portarsi da una casa all’altra per recitare un distratto “rosario” presso i tanti neonati che si erano fermati al primo vagito. Ricordo i tanti piccoli volti paonazzi, ornati da una ghirlanda e i tanti corpicini vestiti di bianco, posti sulla pietra fredda del “comò”, con lo specchio accuratamente coperto, in segno di lutto.

La strada per il cimitero era quasi giornaliera per noi che alle ore passate a scuola, alternavamo il pomeriggio a fare i chierichetti. Con la primavera subentrava un po’ di tregua, anche se l’estate era spesso offuscata dalle disgrazie di bambini cercati nella notte e trovati all’alba a dondolare inanimati sulla battigia. Quanta storia su quella striscia in cui il mare gioca con la sabbia e su quegli scogli buttati alla rinfusa nel porto a proteggere le piccole imbarcazioni! “I massi”, così li chiamavamo, erano il luogo delle prime sfide ardimentose, il traguardo delle traversate a nuoto, dove i piedi ammorbidivano “i calli” che d’estate si formavano col risparmio delle scarpe. Su uno di quei “massi”, per molto tempo, ho letto un nome, scritto con la grafia incerta di chi veniva dalle “aste” che si piegavano sempre, nonostante la minaccia di castighi dei nostri burberi maestri: “Benedètte”.

Questo nome fa tutt’uno con i ricordi dei giochi di stagione. Tra la primavera e l’estate, quando la brezza si faceva più consistente, era il momento degli aquiloni, più modestamente chiamate “comete”, forse perché affidavamo ad esse i messaggi dei nostri desideri. Nella vecchia casa c’era un ampio corridoio che per l’occasione diventava una vera fucina. La “cometa” era il risultato del lavoro di molti; ad ognuno veniva attribuito un compito ben specifico. Le gare consistevano nella grandezza e nella capacità di equilibrio nel librare più alto possibile. Tutto doveva essere fatto secondo calcoli ben precisi, che solo l’esperienza era in grado di svolgere. Il difficile consisteva proprio nel “taglio” del corpo dell’aquilone. Bisognava realizzare un quadrilatero a forma romboidale, ma con la parte inferiore, a cui venivano appiccicate le code, un po’ più allungata. Trovare la “canna” per formare l’ossatura era un’impresa, perché doveva essere flessibile, robusta ed inoltre più leggera possibile. A “sciame” ci si portava nei canneti della Sentina per operare una distruttiva selezione. Anche la ricerca della carta, non era poi così semplice. Si doveva riuscire a trafugare qualche foglio di carta bianca, usata per coprire le casse del pesce e che era ottima per il “corpo” dell’aquilone; la coda, infine, era il risultato di un caleidoscopio di anelli fatti con strisce di giornali reperiti un po’ dovunque. E la colla? In attesa che fosse inventata la “cocoina” o quella a stick, ci si industriava con “acqua e farina” poste a fuoco lento. Era il momento in cui venivano coinvolte le nostre  mamme sempre disponibili, quando ci sapevano impegnati nelle vicinanze di casa. Non drammatizzavano per  lo sporco che lasciavamo sulle “pianghètte” che conoscevano di rado,  lo straccio bagnato che sarebbe andato ad aumentare l’umidità del pavimento, delizia dei “buzzaró”. Trovavi questi ovunque, compagni della nostra miseria. Lo zio Tommaso spesso mi canticchiava: “ Lu buzzarò e la mesèrie jè tott’one/ je piace j spegule mbosse,/ e sta òre ad aspettà/ de lu freché, na mejéche de pà” . Nella costruzione dell’aquilone due erano gli elementi fondamentali: primo, la coda doveva essere proporzionata al millesimo;  secondo , la colla doveva essere ben secca. La parte più lunga della coda, veniva fissata da un lato all’altro a mo’ di corona; quella più corta, alla parte centrale con la funzione di timone.

Tornati dallo “sfollamento”, avevamo ancora nell’orecchie il monotono ronzio presagio di sventure, degli aerei che venivano a turbare i nostri sogni. Volevamo arrivare fin lassù con i nostri aquiloni, per far conoscere la voglia di pace che c’era in noi. Il lavoro, quell’anno, si protrasse per molti giorni, anche perché fu difficile recuperare tutto il materiale necessario, ma alla fine la nostra “cometa” era veramente uno splendore. Quel lontano pomeriggio, una giusta brezza ci invogliò a provare, il luogo del “decollo” fu scelto nei pressi del porto. Il “pontino” raccolse il vociare allegro di tanti ragazzi che facevano corteo agli scelti a portare l’aquilone. Al primo impatto col vento di brezza la “cometa” si alzò, vibrando in tutte le sue parti. Restammo muti, mentre continuava a salire, con Benedetto che lesinava lo spago. Quando fu tanto in alto da esaurire l’ ancoraggio, quasi orgogliosa di sfidare il cielo, ci unimmo in un fragoroso applauso. Tutti avevamo pronto il nostro messaggio da infilare nello spago e li seguivamo, nella salita, con trepidazione. Eravamo veramente fieri del nostro lavoro e Benedetto con lo spago ben fissato alla mano continuava a dirigere tutte le manovre. Ad un tratto per un’improvvisa caduta di vento, l’aquilone incominciò a pencolare, poi si piegò su se stesso e andò a cadere tra i massi sconnessi del porto. Benedetto avvertì per primo il “disastro” e senza mettere tempo in mezzo, accorse nel tentativo di impedire che la “cometa” finisse in mare. Fu l’ultima volta, la sua, a rincorrere aquiloni. Scivolò su uno di quei massi resi viscidi dagli spruzzi del mare e andò a battere con la testa sulle punte sporgenti: “Ha battuto la tempia”, si diceva allora, molto sommariamente, di colpo mortale. Lo trovammo riverso in una pozza di sangue. Urlammo la nostra disperazione e fuggimmo spaventati. Lo portarono all’ospedale che già rantolava e si spense lentamente, rincorrendo irraggiungibili aquiloni. La notizia ci fu portata da una suora, mentre sostavamo lacrimosi seduti sulle scale d’ingresso del vecchio ospedale. Anche “le comete” scomparvero in fretta dai sogni della nostra fanciullezza. Andammo tutti insieme su quei “massi” a scrivere il nome :  “Benedètte”, inconsapevoli di lasciare su quegli scogli una pagina della nostra storia.

Sara De Simplicio: