Vatican News – Luca Collodi
All’indomani della sua rinuncia, per raggiunti limiti di età alla guida pastorale di Genova, il porporato, ai nostri microfoni, ripercorre la sofferenza e le speranze della città, a partire dalla ricostruzione del nuovo ponte Morandi in tempo di pandemia e lascia la sua riflessione sul servizio pastorale nella Chiesa italiana e sull’Europa, dove ricopre l’incarico di Presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa, la CCEE:
Nei prossimi giorni lascerà la guida pastorale dell’arcidiocesi di Genova. Quali sentimenti prova guardando agli anni trascorsi al servizio della comunità genovese?
R. – Un primo sentimento è di grande sorpresa, perché in questi giorni di clausura che abbiamo trascorso tutti, il tempo per pensare, per ripensare, per riandare alla propria esistenza di uomo, di sacerdote, di vescovo e via discorrendo, è stato più facile, quasi inevitabile, tanto più alla luce di questa successione con i cambiamenti che comporta. Ma la sorpresa è come Dio ha guidato sempre la mia vita dandomi la grazia, giorno per giorno, di affidarmi a lui. Se ripenso a tutte le tappe della mia esistenza fino ad oggi, i compiti e le responsabilità improvvise, tutto inaspettato e niente ricercato in nessun modo, mi chiedo come a volte, senza fare dei drammi, mi sia stato possibile, conoscendo quello che sono. Così, invece gli anni della Cei, poi l’Europa, la diocesi di Pesaro, poi l’Ordinariato militare e Genova, la mia amatissima città. Ecco mi sorprendo di non essere rimasto schiacciato, mi lasci dire così. Questo è una riprova, per me sorprendente, della fedeltà di Dio alla vita di ciascuno di noi e del fatto che quando uno non cerca niente nella vita ma accoglie quello che gli viene dato, tramite la Chiesa, la vita stessa, la gente, allora si è più liberi, non insensibili e nello stesso tempo più sereni. Una serenità che è veramente dono di Dio.
Lei è presidente dei Vescovi europei. Questa pandemia è sicuramente un banco di prova per il futuro dell’Europa…
R. – È il banco decisivo, secondo me. È il banco decisivo perché l’Europa unita e il Continente nel suo insieme, non si possono più nascondere di fronte a questa pandemia, perché abbraccia il mondo, anzi lo stritola, in un certo senso, lo flagella. Quindi nessuno si può nascondere. Mentre con il fenomeno dei migranti l’Unione Europea ha potuto nascondersi, guardando un po’ dall’altra parte prima di arrivare ad una responsabilità non solo dichiarata ma praticata, ora con il Covid direi che le carte sono tutte scoperte. E l’Unione Europea di fronte al mondo deve mostrare cosa è veramente, al di là dei trattati, delle leggi, delle regole, tutto necessario. E qui arriviamo a Schuman, De Gasperi, Adenauer, i grandi padri dell’Europa. Si tratta di capire se è una Unione che stritola, in base a codifiche inappellabili, oppure se è una comunità di Nazioni, di popoli, una casa, una famiglia, come appunto pensavano i grandi padri. Che è tutta un’altra cosa. Perché tra Unione e comunità c’è una bella differenza: credo che la comunità sia più leggera ma anche più responsabile. L’ unione è qualcosa, mi sembra, di meccanico, di freddo, distaccato e rigido. La famiglia è comunità non è unione e questa è l’analogia per pensare ad una Europa unita, che i vescovi europei, tutti indistintamente, dichiarano essere la via necessaria per il Continente.
Cardinale il ponte Morandi che si va ormai ricostruendo del tutto, ha rappresentato per Genova un momento di sofferenza, oggi di speranza: è un po’ il segno dei nostri tempi…
R.- Sì, ci richiama ad un grande principio generale: la sofferenza, il dolore, la tragedia non devono mai schiacciare il cuore e la speranza del singolo, della famiglia, come di una comunità civile e naturalmente ecclesiale. Perché questo, lo vediamo, lo abbiamo visto, ne abbiamo prova tangibile, è un principio generale che deriva dall’umanità dell’uomo e dalla fede cristiana. Perché la nostra speranza è Gesù che ci assicura che Dio è sempre con noi. Noi qui abbiamo una prova tangibile, di questo. Naturalmente gioia, soddisfazione e fiducia, non vuol dire dimenticare coloro che hanno perso la vita, le famiglie straziate e tanti altri disagi, soprattutto le vittime. Loro rimarranno sempre nel nostro cuore, nel cuore di Genova e ci sarà sempre preghiera e vicinanza ai loro cari.
Dobbiamo guardare al nuovo ponte con orgoglio o con fierezza?
R. – Con la consapevolezza di una grande responsabilità, di un grande compito. È un’opera che ci dice come bisogna stare più insieme senza litigare, senza personalismi inutili, sciocchi e deleteri, per creare il bene comune, per costruire a testa bassa, come facciamo noi genovesi, un po’ rudi apparentemente ma con una grande ricchezza e anche sensibilità interiore. E non solo Genova avverte l’importanza della nuova opera, il ponte va ben oltre la città e la Liguria perché interessa proprio un intero Paese. È un messaggio di speranza che è insieme genio italiano, determinazione genovese, coraggio di tutti nella unità di intenti, varie amministrazioni, governo e imprenditori, la cittadinanza nel suo insieme e dimostra che è possibile fare le cose presto e bene.
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