Vatican News – Giada Aquilino
La vicenda della cooperante italiana Silvia Romano, rapita il 20 novembre 2018 in un villaggio del Kenya e rilasciata lo scorso week end in Somalia, ha riportato all’attenzione internazionale le attività di gruppi criminali assoldati dai jihadisti somali di al Shabaab o comunque da formazioni a loro affiliate. Quella tra i due Paesi africani “è una zona sicuramente molto instabile, caratterizzata dalla presenza di gruppi legati a Harakat al Shabaab, che è un’organizzazione d’ispirazione salafita jihadista, attiva in territorio somalo ormai da più di 10 anni e che dal 2012 ha formalmente annunciato l’affiliazione ad al Qaeda”, spiega a Vatican News Camillo Casola, ricercatore del programma Africa dell’ Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi). Si tratta, aggiunge, di “un’organizzazione jihadista solidamente presente nel campo qaedista, che ha resistito negli anni anche alle avances dello Stato islamico per uno spostamento degli equilibri del baricentro del jihad nella regione del Corno d’Africa. Per molto tempo ha controllato estesi territori nella Somalia meridionale, quindi anche nelle zone al confine col Kenya. Da qualche anno – prosegue Casola – la situazione è un po’ cambiata nel senso che un progressivo rafforzamento, anche se parziale, delle istituzioni di Mogadiscio ha visto ricuperare da parte del governo della Somalia alcune parti dei territori, ma ad al Shabaab resta ancora il controllo di alcune zone, appunto nella Somalia meridionale. Ciò dimostra ancora una certa capacità di azione non soltanto con operazioni come quella che abbiamo visto nel caso di Silvia Romano, quindi rapimenti, che sono comunque in misura molto minore rispetto a qualche anno fa, ma anche con azioni più spettacolari, come attentati in Somalia e oltre confine, in Kenya”.
“Nel caso di al Shabaab in Somalia – riferisce il ricercatore dell’Ispi – le rivendicazioni del gruppo armato si saldano a quelle che più di un decennio fa erano legate alle dinamiche politiche del contesto nazionale: ricordiamo le Corti islamiche, quindi un governo a guida islamica. Al Shabaab nacque sulla scorta di quell’esperienza, come braccio armato dell’organizzazione. Le sue rivendicazioni sono sempre state strettamente legate ad un contesto locale, nazionale, quindi riguardanti l’assunzione di un controllo effettivo sullo Stato somalo e l’organizzazione di uno Stato sulla base dei principi dell’Islam salafita jihadista da loro adottati. Più in generale, si tratta comunque di un’organizzazione che, afferendo al campo qaedista, ha anche delle rivendicazioni più estese, quindi la lotta contro l’Occidente, la lotta contro i nemici regionali, l’Etiopia e il Kenya, che negli anni hanno invaso il territorio somalo e sono stati percepiti come un nemico da combattere”.
A rimbalzare periodicamente nelle cronache sono anche le sanguinose azioni degli estremisti islamici di Boko Haram che, partendo dal nord est della Nigeria, hanno provocato dal 2009 oltre 27 mila morti e più di 3 milioni tra sfollati e profughi. “Il contesto nel nord est della Nigeria – evidenzia Casola – è decisamente diverso rispetto a 10 anni fa, quando si è assistito alla radicalizzazione delle attività armate di Boko Haram. Oggi la presenza di Boko Haram è sicuramente meno evidente di quella di un’altra organizzazione, che è lo Stato islamico nell’Africa occidentale. È un gruppo armato originariamente creatosi da una scissione interna di Boko Haram e successivamente emerso come il principale attore delle dinamiche di jihad non più soltanto nel nord est della Nigeria ma nella regione del bacino del Lago Chad. È soprattutto l’Iswap, lo Stato islamico nell’Africa occidentale, ad essere il principale attore delle violenze che interessano il nord est della Nigeria, il sud est del Niger, il sud ovest del Chad e i territori dell’Estremo Nord del Camerun. È dunque una dinamica più regionale. Questi gruppi – va avanti il ricercatore – agiscono prevalentemente attaccando gli avamposti dell’esercito, i simboli e le istituzioni degli Stati interessati dalle dinamiche di violenza ma anche le popolazioni e le comunità civili, benché in alcune zone tali formazioni siano addirittura in grado di sviluppare dei processi di socializzazione che portano all’istituzione di entità che riescono in qualche modo a provvedere in termini di welfare, servizi essenziali per quelle popolazioni particolarmente marginalizzate ed escluse dalle realtà statali: sfruttano cioè tali condizioni di marginalizzazione e di esclusione per ottenere in qualche modo forme di consenso popolare. L’obiettivo – prosegue – è quello di istituire un’entità sul modello del Califfato islamico in Iraq e Siria, che solo un anno fa è stato sconfitto militarmente ma il cui riferimento simbolico è ancora ben vivo soprattutto nei territori dell’Africa sub sahariana”.
In particolare nella regione del Sahel occidentale, sottolinea ancora Casola, “i traffici criminali di droga, esseri umani, medicinali contraffatti o sostanze sintetiche sono nella maggior parte dei casi condotti da gruppi e organizzazioni criminali che spesso sono però strettamente intrecciati alle organizzazioni jihadiste che sfruttano in qualche misura queste reti di traffico, imponendo tasse sul passaggio delle merci o con un coinvolgimento più diretto. Quindi sicuramente ci sono delle dinamiche che si intrecciano e che vedono i gruppi jihadisti interessati ad approfittare di tali dinamiche di traffico criminale nella regione del Sahel, intesa in senso più esteso”.
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