di Ilaria de Bonis
Il Corno d’Africa e tutta l’Africa orientale, dal Sudan al Mozambico, ma anche la zona centrale, tra Niger e Repubblica Centrafricana, sono sempre più provate da numerose minacce (ambientali, terroristiche, pandemiche) che mettono a repentaglio la vita delle persone e ne provano la resistenza.
Il terrorismo di matrice Jihadista, legato al gruppo islamista Al Shabaab (che ha tenuto prigioniera la cooperatrice italiana Silvia Romano), imperversa da anni tra Kenya e Somalia, ma in questi ultimi mesi un’affiliazione locale mozambicana ha preso sempre più piede nel nord del Mozambico, a Cabo Delgado. La frequenza e la virulenza degli attacchi del gruppo che si fa chiamare anche Ahlu Sunnah Wa-Jama, destano molta preoccupazione tra i missionari e in tutta la Chiesa locale. Il Mozambico è l’epicentro di una recrudescenza armata molto ben organizzata. Il numero di morti potrebbe aver raggiunto già le mille persone. Il sito della Fondazione Missio (https://www.missioitalia.it/) riporta una lunga intervista video al vescovo di Pemba, dom Luiz Fernando Lisboa, che entra nei dettagli dell’identità dei terroristi di Cabo Delgado.
“All’inizio si diceva che fosse un ‘nemico senza volto’, ma negli ultimi attacchi si sono presentati come Stato Islamico; noi però abbiamo molti dubbi su questa identità. Può essere che stiano usando questo nome in modo strumentale”, spiega il vescovo intervistato da Paolo Annechini. “Dal 4 ottobre 2017 ad oggi, gli attacchi non si sono più fermati, anzi si sono intensificati – precisa dom Lisboa –. All’inizio gli uomini armati erano lontani dal centro città, nella zona nord di Cabo Delgado. Quando attaccavano un centro abitato la gente si rifugiava in città e i villaggi si svuotavano. Erano attacchi molto violenti: uccidevano, tagliavano la testa, bruciavano le case. A partire da gennaio 2020 si sono spostati a Mocimboa de Praia, e negli ultimi attacchi usano delle uniformi”. Secondo il vescovo, il nemico armato è sempre più definito e sostenuto. Non si tratta però di guerra religiosa. “I musulmani del Mozambico fin dall’inizio hanno preso le distanze da loro, scrivendo un documento di condanna. E di fatto nella nostra provincia non abbiamo mai avuto problemi di relazione tra cristiani e islamici”, precisa il vescovo. I terroristi reclutano le persone nei villaggi e così si rafforzano. “Cruciale è il fattore povertà in questa regione da sempre dimenticata”, dice ancora il vescovo. La disoccupazione e la mancanza di alternative portano spesso i giovani mozambicani a scegliere la strada dei gruppi armati.
Spostandoci al Nord e salendo su fino al Niger, troviamo un altro focolaio di terrorismo di matrice jihadista, tra i più feroci e impossibile da controllare, poiché le frontiere del Niger praticamente non esistono, nel triangolo Mali, Burkina Faso, Benin. “I confini del Niger sono labili, di fatto non c’è controllo alle frontiere”, spiega padre Mauro Armanino, missionario della Società missioni africane, alla Fondazione Missio. L’epicentro delle violenze è Tillaberi, località proprio al confine con Mali, Burkina e Benin. Appena due giorni fa sono state uccise venti persone in un attacco armato. “Quello che io vedo, da qui, dal deserto del Niger, è una totale mancanza di prospettiva e di proporzione da parte dell’Occidente. La gente da noi soffre per una serie di cause strutturali, legate alla vulnerabilità alimentare, al terrorismo di matrice jihadista, al diffondersi di malattie che diventano mortali (la malaria ha fatto oltre 40mila morti)”, spiega padre Mauro che parla di “colonialismo culturale europeo”.
La pandemia del Covid-19, sia in Niger che in Mozambico non è fortunatamente così estesa, ma ad uccidere le persone sono fattori che sfuggono alla logica occidentale e sono spesso ignorati dai media. Altra causa di morte (che sta incidendo fortemente sui raccolti), sono le locuste, che invadono le terre del Corno d’Africa e di tutta l’Africa orientale. Un secondo sciame di insetti deleteri per i raccolti è approdato di recente nelle regioni che trasversalmente tagliano Eritrea, Etiopia, Kenya, Somalia e Sud Sudan. A rischio fame sono 25 milioni di persone secondo la Fao. Questa emergenza va a sommarsi a quella generata dalla pandemia del Covid-19 che comunque in Africa (eccetto l’intera striscia del Nord Africa, e il Sudafrica) procede con lentezza e sta facendo, per ora, meno danni del previsto. Tuttavia la Fao avverte che le due emergenze insieme provocano una “insicurezza alimentare” senza precedenti e che è necessario proteggere le persone più vulnerabili da quattro minacce in contemporanea: “i conflitti, le condizioni climatiche avverse, le locuste del deserto e il Covid-19”. Padre Renato Kizito Sesana, missionario comboniano a Nairobi, in Kenya, scrive in una lettera aperta che le inondazioni, le frane, i crolli causati dalle prime piogge stanno facendo di certo più danni della pandemia (finora i morti accertati per Covid-19 sono 32). “Qui i disastri naturali, causati dall’insipienza e dall’avidità umana – scrive padre Kizito – si susseguono senza sosta. Aggravati dallo sconsiderato, criminoso sfruttamento delle risorse naturali che le compagnie internazionali hanno accelerato negli ultimi decenni”.
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