Stefano De Martis

E’ stato definito un “tesoretto” o addirittura un “jackpot”. Il piano della Commissione Ue deve ancora passare il vaglio del Consiglio Europeo e già si sa che il prossimo vertice, convocato per il prossimo 19 giugno, non sarà quello decisivo. Ma i residui margini di prudenza, sempre opportuni quando è in corso un negoziato internazionale di grande complessità, non hanno impedito che gli aiuti in arrivo dall’Europa diventassero fin d’ora il tema centrale del dibattito pubblico nel nostro Paese. La portata dell’operazione è tale, tenuto anche conto degli altri interventi già attivi o comunque già decisi a livello comunitario, che intorno al modo di gestirla si stanno ridefinendo i rapporti tra forze politiche, soggetti sociali e poteri economici. Se non ci si lascia distrarre dalle schermaglie quotidiane ad uso dei media, che pure possono creare cortocircuiti pericolosi per la tenuta del quadro generale, la chiave di lettura di questa fase è la prospettiva di una stagione di investimenti che non ha precedenti nella storia recente del Paese. E sarà così almeno fino a settembre, quando si terrà una tornata elettorale di grande rilevanza, tra referendum costituzionale e voto regionale/amministrativo, e si metterà a punto la manovra di bilancio per il 2020 e gli anni a venire. Perché la ricostruzione post-pandemia non è un’impresa che si possa esaurire nel breve periodo, ma coinvolge e investe le prossime generazioni: non per niente il piano europeo si chiamerà “Next Generation Eu”.
Il nostro Paese ha davanti un’occasione storica e quindi il grande fermento che si è creato può avere una valenza positiva: è un passaggio troppo importante per scivolare nell’indifferenza dell’opinione pubblica. Come pure è positiva l’intenzione di coinvolgere nell’elaborazione di un progetto nazionale tutti i soggetti attivi nella società italiana. Purché siano davvero tutti e non siano tagliate fuori le realtà che anche durante i momenti più acuti dell’emergenza hanno dimostrato, ancora una volta, di svolgere un ruolo insostituibile nell’assicurare la coesione sociale del Paese.
Il confronto serio di cui c’è bisogno non è fine a se stesso, ma è funzionale a individuare priorità il più possibile condivise. La sfida, come ha sottolineato con parole apprezzabili il premier Conte, non riguarda il governo di turno. Abbiamo l’opportunità, forse irripetibile, di affrontare finalmente alcuni nodi strategici irrisolti che si trascinano da anni e su di essi far convergere riforme e risorse. Tra di essi c’è sicuramente – e in primo piano – il problema demografico, la questione che più di tutte riguarda le prossime generazioni e che però nell’immediato non paga dividendi. Né dividendi politici, né dividendi economici. Mentre il “tesoretto” fa gola a molti su entrambi i versanti.
Più evidenti gli interessi dei partiti, perché la gestione di un flusso così imponente di risorse finisce inesorabilmente per intercettare i meccanismi di ricerca del consenso. Meno evidenti, ma di pari, se non maggiore, concretezza, quelli dei gruppi economici, che appaiono particolarmente attivi in questo frangente. Interessi legittimi, in una certa misura. Ma il bene comune non è la mera sommatoria di tali interessi e almeno in questo frangente epocale si dovrebbe avere il coraggio e la lungimiranza di pensare alla prossime generazioni e non alle prossime elezioni. Con i populismi in crisi, potrebbe essere il momento del riscatto della politica.

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