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Sorelle Clarisse: “C’è un percorso che ciascuno di noi è chiamato a compiere”

DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del monastero Santa Speranza in San Benedetto del Tronto.

C’è un percorso che il popolo di Israele è chiamato a compiere: un percorso di quarant’anni nel deserto, un percorso di riscoperta del proprio cuore, della propria interiorità, di ciò che è al centro della sua vita.
Un percorso in cui è stato sempre accompagnato da un Dio che non gli ha mai fatto mancare il proprio sostegno, la sua protezione, il suo nutrimento.

Leggiamo nella prima lettura, tratta dal libro del Deuteronomio: «Egli ti ha nutrito di manna…per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore».

C’è un percorso che ciascuno di noi è chiamato a compiere: è il percorso della propria vita, della propria esistenza, della propria storia. Un percorso nel quale il Signore si propone e si dona a noi come nutrimento: «Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Per ben sette volte, nel Vangelo di questa domenica, Gesù ci ripete che la sua carne ci fa vivere, che la nostra esistenza sarà davvero orientata alla vita e non alla morte cibandoci della sua carne.

E quando mi nutro di Cristo? Quando prendo la sua vita come misura, energia, seme, lievito della mia umanità. In questo senso, mangiare e bere Cristo non si limita solo alla celebrazione eucaristica ma è un’esperienza chiamata a moltiplicarsi nel nostro vivere quotidiano.

La fede non è qualcosa di vago: è assimilare la carne, l’umanità di Gesù, fino ad avere una umanità simile alla sua.

Innanzitutto lo assimilo comprendendo come lui ha vissuto. Senza la Parola che mi mostra Cristo io non lo assimilo, il suo pensiero non diviene il mio pensiero, il suo agire non diviene il mio agire, il suo modo di amare non diviene il mio modo di amare.

«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui». Rimanere, dimorare: dimorare l’uno nell’altro è tipico dell’amore che non è confusione, non è un mangiare l’uno l’altro per cui l’altro scompare ma è un abitare, uno stare l’uno nell’altro, avere casa l’uno nell’altro.

Mangiare e bere il corpo e sangue di Cristo fa sì che Cristo viva in me e io in lui…ci fa essere dimora di Cristo e ci fa dimorare in lui. Ma tutto questo non è fine a se stesso, non è fine a noi stessi.

Infatti è l’evento dell’Incarnazione che si ripete: il Verbo di Dio che ha preso carne nel grembo di Maria continua, ostinato e infaticabile, ad incarnarsi in noi.

Dio, il quale, lo vogliamo o no, è già da sempre lo spazio nel quale viviamo, ci muoviamo e siamo, irrompe in noi nel pane e nel vino del suo Verbo fatto carne per riprenderci, ogni volta, nella sua comunione così da renderci finalmente capaci di vera comunione con i nostri fratelli, mostrandoci cosa davvero significhino un corpo spezzato e il sangue versato «per la vita del mondo».