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In Italia oltre 340.000 baby lavoratori, 3 su 4 in attività familiari

Patrizia Caiffa

La chiusura delle scuole a causa del Coronavirus, con l’impossibilità per molti  studenti di accedere alla didattica a distanza, avrà “un effetto devastante” sul lavoro minorile in Italia. Nella Giornata mondiale contro lo sfruttamento del lavoro minorile si parla poco del fenomeno tutto nazionale, che però esiste e sul quale le istituzioni non indagano abbastanza. L’ultima ricerca nazionale, curata dall’Associazione B.Trentin della Cgil (che si occupa del fenomeno da oltre vent’anni) e da Save the Children, risale al 2013 e stima circa 340.000 minori di 16 anni con qualche esperienza di lavoro, cioè il 7% della popolazione coetanea. 2 su 3 dei 14-15enni sono maschi. Il 7% è di nazionalità straniera. Anche l’Organizzazione internazionale del lavoro valuta per l’Italia una cifra intorno alle 300.000 unità. Sul fronte delle verifiche l’Ispettorato nazionale del lavoro ha riscontrato nel 2019 complessivamente 502 illeciti, di cui 243 hanno riguardato la “tutela del lavoro dei fanciulli e degli adolescenti”. Ricordiamo che il lavoro minorile è vietato in Italia dal 1967. Dal 2013 fino al primo semestre del 2018 sono stati 1.437 i casi di violazioni penali accertate. Qui non si tratta di bambini schiavi che lavorano sfruttati 12 ore al giorno come nelle miniere africane o nelle industrie tessili asiatiche.

Il lavoro dei minori italiani ha origine dalla famiglia, è un grande problema educativo e culturale.

Tanti spingono i propri figli, soprattutto quando non vanno bene a scuola, a darsi da fare nelle attività familiari di ristorazione, nel commercio, nell’agricoltura, nell’artigianato. Poi c’è il capitolo dei minori stranieri non accompagnati che fuggono dai centri di accoglienza e scompaiono nel nulla, circa la metà. Molti di loro trovano lavori in nero in vere condizioni di sfruttamento.

 

L’effetto Covid-19. Le associazioni di settore e i sindacati invocano da tempo, finora invano, un monitoraggio nazionale. Non si stancano di denunciare la gravità del fenomeno, che rischia di peggiorare a causa delle conseguenze dell’emergenza Covid-19 e dell’aggravarsi della dispersione scolastica. “E’ chiaro che tre mesi senza entrare in classe avranno un effetto devastante su migliaia di ragazzini – lancia l’allarme al Sir Anna Teselli, responsabile delle politiche scuola della Cgil nazionale -. Già li perdevamo con la scuola in presenza, figuriamoci con la didattica a distanza. Molti di loro non hanno a disposizione pc, tablet o connessioni”.

“Quest’anno rischiamo di perdere anche i bambini di 10 e 11 anni”.

“In Italia – spiega – esiste una propensione al lavoro precoce orientata dalla famiglia, specie dove c’è un basso livello di studi da parte dei genitori o quando la scuola espelle i ragazzi. Sono tutte zone con scarsa offerta culturale e formativa. Mandano a lavorare i figli al bar, in officina, nel ristorante a gestione familiare, eccetera. In alcuni territori, ad esempio Napoli, Palermo, Bari, c’è l’ulteriore rischio di entrare in contatto con le mafie”. I casi stanati dall’Ispettorato del lavoro, diverse centinaia, “fanno parte solo delle situazioni di sfruttamento più estreme”, precisa: “Il fenomeno del lavoro minorile è legato alla povertà educativa e al tema della crescita socio-economica del Paese”.

3 ragazzi su 4 lavorano per la famiglia. Secondo l’ultima indagine nazionale quasi 3 ragazzi su 4 lavorano per la famiglia, aiutando i genitori nelle loro attività professionali nel mondo delle piccole e piccolissime imprese a gestione familiare (41%) oppure sostenendoli nei lavori di casa (30%) Il restante 29% si distribuisce in misura equivalente tra chi lavora nella cerchia dei parenti e degli amici oppure per altre persone. I maschi rappresentano la maggioranza. L’evento critico della bocciatura è molto più frequente per i minori con esperienze di lavoro . 1 ragazzo su 5 dei 14-15enni che lavorano svolgono un’attività di tipo continuativo (quasi 55.000), soprattutto in ambito familiare. Il 65% dei casi tutti i giorni o in modo regolare, cioè oltre 6 mesi l’anno (il 67% di contro al 27%). Il 34% delle attività sono svolte di sera o di notte.

Circa 28.000 ragazzi sono coinvolti in attività “a rischio di sfruttamento”.

Una intera generazione fuori gioco. Molti minori lavoratori italiani rientrano nelle categorie dei cosiddetti “Early school leavers” (quelli che abbandonano la scuola) e Neet (Neither in employment nor in education or training), i giovani che non studiano e non lavorano, stimati in oltre 2 milioni in Italia, il numero più alto in Europa. Le cifre più alte sono al Sud. “Stiamo condannando una intera generazione alla deprivazione culturale ed economica”, sottolinea Teselli. Le richieste alle istituzioni sono tante e ripetute da anni. Tra queste: “Potenziare lo staff educativo e le metodologie didattiche inclusive per mantenere i ragazzini all’interno della scuola; differenziare e potenziare l’offerta educativa, soprattutto il settore tecnico-professionale;

realizzare campagne di sensibilizzazione coinvolgendo gli enti locali, le parrocchie, gli oratori, per far capire alle famiglie che i figli devono rimanere a scuola”.