Luciano Baronio da Avvenire
Vogliamo affrontare un tema singolare, quello del rapporto della comunità cristiana e della sua azione pastorale con la Protezione civile. Caritas e Protezione civile sono istituzioni con origini e statuti diversi – il primo ecclesiale, il secondo civile – che hanno in comune un fattore fondamentale, cioè il rapporto con il territorio, dove sono chiamate a operare ognuna nel proprio ambito e a collaborare, integrandosi, per rispondere ai bisogni delle popolazioni. Sono due organismi istituiti per legge, la cui presenza riguarda ogni Comune e ogni parrocchia. Dunque due soggetti istituzionali che nelle emergenze hanno reso tangibile la partecipazione dello Stato e della Chiesa.
Le numerose calamità che si rincorrono in modo impressionante stanno mettendo a dura prova le popolazioni del pianeta e le loro risorse. Molte emergenze ci colgono di sorpresa, come il coronavirus, ma ve ne sono altre non clamorose e ugualmente pericolose per la vita della collettività: come l’emergenza ambiente, soprattutto per le grandi città e le zone ad alta concentrazione industriale, dovuta all’inquinamento dell’aria e dell’acqua e alla crescita smisurata dei rifiuti. Per far fronte alle emergenze è necessario mettere in atto una costante sensibilizzazione e una educazione specifica che valorizzi al massimo la collaborazione tra Protezione civile e Caritas, che hanno sviluppato nelle diverse occasioni un’azione intelligente e apprezzata. Il passaggio dalla Poa (Pontificia Opera Assistenza) alla Caritas come organismo pastorale chiamato a studiare i problemi legati alla povertà, voluto da Paolo VI, ebbe il rilievo di una vera svolta culturale che però non tutti hanno colto.
Può giovare un po’ di storia. La protezione civile, è un «compito primario dello Stato» definito dal regolamento di esecuzione (1981) della legge 996 del 1970, art.1, dal titolo «Norme sul soccorso e l’assistenza alle popolazioni colpite da calamità ». Per protezione civile si intende l’insieme di tutte quelle azioni utili a tutelare l’integrità della vita, dei beni e dell’ambiente dalle catastrofi, causate da azione dell’uomo, calamità naturali o altri eventi, o dal pericolo di essi. Molto si è fatto a partire dagli anni ’70 ma molto resta da fare, soprattutto per una più ampia partecipazione di soggetti disponibili e capaci che ne condividano le finalità. A prima vista può sembrare strano che la Caritas e il volontariato che a essa fa riferimento – e di conseguenza la comunità cristiana – si occupino di un tema così ‘laico’ e tecnico. La risposta sta nel fatto che la solidarietà passa per queste strade, pena il non riuscire a far qualcosa di utile alle popolazioni colpite: o si entra in questi ambiti o si resta tagliati fuori. È allo Stato e al suo piano generale di intervento – che ha la responsabilità di una risposta globale e l’obbligo di coordinare – che bisogna far riferimento. È in forza dello Statuto che la Caritas si occupa di protezione civile, dovendo «promuovere la testimonianza della carità (…) in forme consone ai tempi e ai bisogni» (Statuto Caritas Italiana, art.1.3-a). Un fattore qualificante è la formazione civica e del senso dello Stato. La comunità cristiana, beninteso, non è chiamata a risolvere in prima persona i gravi problemi di una popolazione colpita dall’emergenza: non ne ha né la competenza né gli strumenti. Questo rapporto con la società civile e con lo Stato fa avvertire alla comunità cristiana «il bisogno di una rinnovata formazione civica che sviluppi una cultura della solidarietà, dove il senso dello Stato venga a far parte del senso della comunità e si guardi alle istituzioni in maniera leale e fiduciosa». l cristiani debbono sentire anche in questi frangenti di «lavorare per uno Stato dei diritti e dei doveri, dove ci sia chiarezza di tutela per ogni cittadino» (Giovanni Paolo II, Discorso al presidente del Consiglio, 3 giugno 1985). Di conseguenza la Caritas è chiamata a favorire il rapporto della comunità cristiana con le istituzioni della società civile, con un atteggiamento di stima e di sincera collaborazione, tenendo presente che ogni intervento di protezione civile riveste il carattere di ‘pubblico servizio’. Per la comunità cristiana è un’applicazione concreta dello spirito del Vaticano II, che ha stabilito in modo nuovo il rapporto Chiesa-mondo, come ci ricorda continuamente papa Francesco.
L’espressione caritativa della Chiesa ha offerto la sua piena collaborazione sul campo all’organismo pubblico di intervento nelle situazioni di crisi mantenendo la propria inconfondibile fisionomia
In ogni caso, la comunità cristiana è tenuta a salvaguardare ciò che la contraddistingue. Anzitutto, la fedeltà all’ispirazione evangelica che la muove: il suo infatti è un amore che ha la sorgente nello Spirito Santo che le è dato e non si esaurisce nella risposta ai bisogni ma guarda alla persona, e con i suoi gesti può rendere visibile l’amore di Dio per l’uomo che soffre. C’è poi la scelta di privilegiare il rapporto personale, che ha nell’aiuto psico-sociale la sua concreta realizzazione, tanto più necessaria quanto meno praticata anche dalle istituzioni che, prese dalle urgenze, non hanno tempo di dedicarsi a un rapporto personalizzato. Un altro aspetto è cercare i più poveri tra i poveri: l’emergenza colpisce tutti, ma evidentemente più degli altri ne subiscono le conseguenze gli anziani, le persone sole, i bambini, gli handicappati, gli incapaci, i malati mentali… Vanno inoltre preferiti interventi comunitari a quelli individuali o di gruppo: la tipologia più conosciuta e sperimentata è quella dei gemellaggi, ter- mine generale ma applicabile con modalità diverse alle differenti forme di emergenza. Occorre poi dare importanza allo stile del rapporto, perché vale più il modo con cui si dà che quello che si dà. Infine, bisogna guardarsi dal protagonismo o da forme di autoesaltazione per i risultati ottenuti, quando ci sono, secondo l’insegnamento del Signore – «Siamo servi inutili, abbiamo fatto ciò che dovevamo» (Lc 17,10) – e di san Paolo, che raccomanda: «Voi che siete i forti aiutate i deboli, senza compiacere voi stessi » (Rm 15,1).
Nell’impegno contro gli effetti del virus si è esercitata un’alleanza civile che impegna la comunità cristiana
Il ruolo della Caritas è di educare alla solidarietà. La sua particolare funzione pedagogica la spinge a svolgere un’ampia azione di sensibilizzazione, dentro e fuori la comunità cristiana. Se l’aspetto educativo mantiene la prevalenza dovuta la Caritas può evitare il pericolo – tutt’altro che ipotetico – di cadere nel tecnicismo o nell’efficientismo, e sarà aiutata a far vivere l’emergenza come momento di crescita umana, spirituale e sociale, scegliendo a questo scopo strumenti adatti per orientare l’opinione pubblica locale. La cultura della protezione civile include poi l’educazione a un rapporto diverso con l’ambiente naturale e il territorio. Ciò comporta un’educazione al senso della responsabilità personale, da praticare nella vita quotidiana. La Caritas deve sviluppare anche un’azione di coordinamento: quello di carattere nazionale spetta nell’ambito ecclesiale, per statuto, a Caritas Italiana, che ha il compito di «indire, organizzare e coordinare interventi di emergenza in caso di pubbliche calamità che si verifichino in Italia e all’estero» (art.3). «Un coordinamento ecclesiale – sono parole di Paolo VI – si rivelerà provvidenziale specialmente nei casi di emergenza quando occorrerà organizzare interventi col generoso contributo di tutte le diocesi, simultaneamente » (Discorso alle Caritas diocesane, 1972). Comunità cristiana e Caritas, a ogni livello, devono ravvisare in questo impegno uno dei ‘luoghi’ dove sono chiamate a vivere la missionarietà, consapevoli che la Chiesa particolare riprende nuovo vigore quando si allargano i suoi orizzonti.
Già direttore Centro Studi Caritas Italiana e segretario della Commissione Giustizia e Pace della Cei Autore di «Catastrofi naturali ed emergenze» (Piemme) e «Testimoni della carità nelle periferie umane» (Viverein)
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