“La paura non deve paralizzarci. Dobbiamo guardare avanti, in positivo. E dare noi l’esempio”. Le parole di speranza arrivano al Sir da dom Giuliano Frigeni, bergamasco, a lungo missionario del Pime e vescovo di Parintins, città che si trova nello Stato brasiliano dell’Amazonas, ai confini con il Parà, in un’isola che sorge proprio in mezzo al grande Rio delle Amazzoni. A Parintins il Covid-19, che ha seguito le più importanti vie di comunicazione, è arrivato da tempo, e si è portato via la vita di una sessantina di persone. “Abbiamo perso due bravi medici del nostro ospedale”, ci dice dom Frigeni, che racconta però come la Chiesa locale, storicamente plasmata dai missionari del Pime (tutti i vescovi di Parintins sono giunti finora da questa congregazione), abbia reagito,“usando” in modo intelligente tutte le proprie risorse, a partire dall’ospedale diocesano, per finire con la barca che porta le “borse di alimenti” negli angoli più sperduti della foresta,mettendo così in sicurezza le popolazioni indigene. Senza dimenticare le opere educative (ora ferme), gradualmente prese in carico dall’Ente pubblico: scuole (una specifica per sordomuti), centri sociali e per ragazzi di strada.
Spiega ancora il vescovo:“Per noi è stato un riferimento papa Francesco, abbiamo capito che il problema maggiore era di stare vicini alla gente, ma con prudenza e con il distanziamento fisico, cosa non facile in territorio amazzonico.Abbiamo dato l’esempio, usato molto le celebrazioni in streaming, anche se non abbiamo potuto usare la nostra televisione, si è rotto un pezzo che deve arrivare da Belém. I mezzi di comunicazione sono importanti, per offrire lo sguardo della fede di fronte a questa realtà, per mantenere l’intelligenza aperta. Insomma siamo qui, senza stancarci. Nel corso della storia, in momenti come questi sono nati ospedali, ordini religiosi…”.
Il fondamentale servizio dell’ospedale diocesano. Per la verità, a Parintins, non è stato necessario creare un ospedale, dato che ce ne sono addirittura due, cosa più unica che rara in mezzo all’Amazzonia: c’è quello del Comune e quello della diocesi, fondato dal Pime insieme a numerose istituzioni e opere educative, e intitolato a padre Ferruccio Colombo. “Quando sono arrivati i primi contagi – racconta dom Giuliano, che spesso, bardato con tutti i dispositivi di sicurezza, fa visita ai vari reparti – ci siamo divisi i compiti con l’ospedale pubblico. Lì sarebbero andati i pazienti Covid, da noi tutti gli altri”.
Ma le cose sono andate, in parte, diversamente, come ci racconta suor Laura Cantoni, missionaria dell’Immacolata (congregazione femminile emanazione del Pime) e direttrice amministrativa dell’ospedale: “In maggio ci siamo resi conto che anche noi avevamo del personale o dei pazienti contagiati.I tamponi erano pochi, bisognava mandarli a Manaus e attendere l’esito per una settimana.In questa situazione, a un certo punto ci siamo accorti che nel reparto di Ostetricia quasi la metà delle pazienti, in procinto di partorire, erano state contagiate. Non si poteva, a quel punto, trasferirle nell’altro ospedale. Abbiamo dovuto separare i pazienti e creare due reparti di Ostetricia, quello rosa per le donne in isolamento, e l’altro dove invece non c’erano problemi. Per fortuna, donne e bambini stanno tutti bene”.
Nelle ultime settimane, inoltre, l’ospedale diocesano ha perso per il virus due medici, tra cui un ortopedico noto in tutta l’Amazzonia. E la struttura ha dovuto “prestare” il proprio direttore sanitario al vicino ospedale pubblico, dato che colui che la stava dirigendo è rimasto egli stesso contagiato e ora si trova a San Paolo, dopo aver anch’egli rischiato di morire.
“Il personale medico sta vivendo questo momento come una missione, ma è innegabile che spesso tristezza e spavento sono i sentimenti prevalenti”, continua la religiosa, che sottolinea invece la collaborazione che si è venuta a creare tra i due ospedali:“Spesso i medici sono gli stessi, i problemi non mancano ma ci si aiuta, in qualche caso ci siamo passati i respiratori, o i tamponi”.Una speranza, spiega dom Frigeni, che sta anche pensando a un futuro e stabile assetto della struttura diocesana, nella quale “in queste settimane abbiamo raddoppiato il personale”, è quello di dare vita a Parintins, nell’ospedale pubblico alla seconda terapia intensiva dello Stato dell’Amazonas, dopo quella di Manaus:“La sfida è quello di avere un sistema unico di salute che sia a servizio delle persone, senza episodi di corruzione cui abbiamo assistito anche in questi mesi, quando un respiratore da 12 reais è arrivato a costarne anche 130mila”.
La provvidenziale opera di padre Enrico tra gli indigeni. Intanto, la preoccupazione principale è che il contagio non si estenda, come è accaduto in altre zone dell’Amazzonia, alla popolazione indigena dell’interno. “Finora ci sono stati casi sporadici – dice suor Laura -. Ma le tre riserve indigene dell’interno, dove vivono soprattutto indigeni dell’etnia Sateré Mawé, sono state sigillate in modo rigido.Temiamo molto quello che potrebbe succedere nei prossimi 15-20 giorni”.
La mancata diffusione del contagio tra le popolazioni native, del resto, ha un segreto, che porta anche in questo caso ai missionari del Pime e in particolare a padre Enrico Uggè, che ha trascorso tra gli indios 48 dei 50 anni di sacerdozio. “Ha fatto lui il 95% del lavoro”, dice dom Frigeni. Padre Enrico, che è originario di Castiglione d’Adda, a 6 chilometri da Codogno (“Per il Covid-19 ho perso un cognato”, ci dice), spiega come è finora riuscito nell’impresa: “Parliamo di un’area di 7.700 chilometri quadrati, grande più o meno come la Liguria, con 10-12mila indigeni distribuiti in circa 60 villaggi. In alcuni non si arriva con le barche più grandi, ma solo in canoa. Le riserve sono state chiuse già a marzo, ma la cosa fondamentale è che le popolazioni locali non raggiungano le città, Parintins e Barreirinha, per cercare alimenti”.
Di conseguenza, padre Enrico ha organizzato una distribuzione capillare in ogni remoto villaggio di generi di prima necessità:“Abbiamo raccolto fondi, e portato 900 cestini con alimenti di base attraverso la barca-scuola San Pedro, e poi con le canoe, fino ai villaggi più sperduti. Poi abbiamo ripetuto l’operazione una seconda volta, e ora siamo già al terzo viaggio. Ma oltre all’aiuto concreto, per le popolazioni indigene è fondamentale sentire che siamo loro vicini, che c’è qualcuno che si ricorda di loro, che si preoccupa per la loro salute. Questa è una cosa centrale”. Una prossimità che finora si è rivelata vincente.
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