Andrea Frison
“L’aggettivo ‘storico’ rischia sempre di essere abusato, ma usarlo per l’accordo a Bruxelles raggiunto dopo 92 ore di negoziati non è fuori luogo”. È questo il messaggio con cui padre Giuseppe Riggio sj, direttore di “Aggiornamenti Sociali”, ha commentato su Twitter l’esito del vertice conclusosi a Bruxelles a inizio di questa settimana.
Padre Riggio, cosa c’era in gioco nell’Unione Europea, in queste settimane? È tutto riducibile ad una mera questione di soldi?
Il Consiglio europeo appena conclusosi a Bruxelles occupa già un posto rilevante nella storia del processo di integrazione europea, e non solo perché è stato tra i più lunghi di sempre, ben 92 ore! Solo qualche mese fa la creazione di un fondo con le caratteristiche del Recovery fund – significativamente battezzato Next Generation Ue dalla Commissione europea – era considerata utopistica. Ma la crisi generata dalla pandemia ha obbligato i leader europei a rivedere priorità e politiche ritenute immodificabili. L’accordo siglato riguarda il bilancio dell’Ue per il periodo 2021-2027 (pari a 1.074 miliardi di euro) e le misure – in aggiunta a quelle già adottate negli scorsi mesi, come il Mef – per far fronte alla crisi economica e sociale innescata dalla pandemia con il Recovery fund, dotato di 750 miliardi di euro, di cui 390 saranno erogati in sussidi a fondo perduto e 360 come prestiti a condizioni contenute.Si tratta di cifre importanti, ma la novità storica di questo vertice è data dal modo in cui si è deciso di finanziare questo fondo: l’Unione raccoglierà le risorse economiche necessarie attraverso l’emissione di bond garantiti dal proprio bilancio pluriennale.In altre parole, per finanziare il Recovery fund si farà ricorso a un debito comune, segnando un passo fondamentale verso un nuovo modo di concepire la politica economica europea.
La contrapposizione tra Paesi “spendaccioni” e Paesi “frugali” è sufficiente a spiegare le tensioni che attraversano l’Ue?
Le cronache degli ultimi anni hanno chiaramente mostrato che su diversi temi si registrano posizioni molto distanti tra gli Stati membri dell’Ue. Negli ultimi mesi abbiamo imparato a conoscere i Paesi “frugali” (Austria, Danimarca, Paesi Bassi, Svezia) e le loro posizioni sul Recovery fund, come la richiesta di un ammontare più basso del fondo, i maggiori controlli sulle spese o la riduzione degli aiuti a fondo perduto. Ma in precedenza altri Paesi erano stati al centro dell’attenzione generale, come il Gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia, Ungheria), che si sono opposti alle decisione europee sulla redistribuzione dei migranti o alle politiche ambientali. Le differenze – non solo a livello economico, ma di storia, cultura, società – tra i 27 Stati membri europei sono notevoli, malgrado il processo di convergenza realizzatosi nel corso degli anni, e ovviamente pesano sul processo europeo.L’accordo raggiunto mostra che la ricerca di un compromesso è l’unica strada possibile e utile, purché l’attenzione nei negoziati si concentri soprattutto sul bene generale più che sugli interessi particolari.
In molti sostengono che l’occasione offerta dal Covid-19 sia come un treno che l’Ue deve saper prendere. Vale anche per l’Italia?
La pandemia ha prodotto uno scossone enorme nell’Ue, come in tutto il mondo, ma come diceva Jean Monnet, uno dei padri fondatori del progetto europeo, “l’Europa sarà forgiata dalle sue crisi e sarà la somma delle soluzioni trovate per risolvere tali crisi”. Le risposte messe in campo segnano un cambio notevole nel modo in cui funziona l’Unione, ma il loro impatto sarà maggiore se si collegheranno con gli obiettivi strategici individuati dalla Commissione europea a livello di digitale e di European green deal per i prossimi anni, che delineano uno sviluppo nel segno della sostenibilità.
Sicuramente l’Italia partecipa di questo processo e ne può trarre grandi benefici.
Senz’altro a livello economico, visto che il nostro Paese riceverà più di 200 miliardi dal Recovery fund (81,4 di sussidi e 127,4 di prestiti), ma anche in termini di innovazione e di superamento di modelli che in vari settori, dalla sanità all’organizzazione del lavoro, la pandemia ha impietosamente mostrato come insufficienti e insostenibili.
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