Stefano De Martis
L’Italia è uscita molto bene dal negoziato europeo sul Recovery Fund.
Come ha sottolineato il Quirinale, lo storico accordo raggiunto sul Piano di ripresa – che segna per molti versi una svolta epocale nel cammino della Ue – contribuisce oggettivamente a creare quelle “condizioni proficue” per “predisporre rapidamente un concreto ed efficace programma di interventi” di cui il nostro Paese ha drammaticamente bisogno. Tuttavia il quadro politico interno continua ad apparire fondamentalmente instabile e il Governo, che pure ha portato a casa un risultato di enorme rilievo di cui ancora non si sono valutate appieno tutte le implicazioni, risulta impegnato in una corsa ad ostacoli in cui ad ogni barriera da superare sembra correre il rischio di una rovinosa caduta.
Alla radice di questa situazione che si potrebbe definire, con il gusto dell’ossimoro, di stabile precarietà, non ci sono soltanto i singoli atti dei leader politici e dei loro partiti, ma c’è un nodo di fondo. Coglierlo non offre automaticamente la soluzione del problema, ma almeno consente di capire meglio i processi in atto. Bisogna partire da un presupposto: l’atteggiamento nei confronti dell’Unione europea – non solo come istituzione ma come insieme di valori – è diventato in questi anni il criterio dirimente per il posizionamento delle forze politiche e per i rapporti tra di esse. In una certa misura – fermi restando i limiti con cui vanno interpretate queste analogie nella irripetibilità dei momenti storici – qualcosa di simile a quel che nel dopoguerra e fino almeno a tutti gli anni Ottanta è stato rappresentato dalla collocazione rispetto all’Alleanza atlantica e al blocco sovietico. Si potevano anche assumere posizioni più elastiche e meno allineate di quelle di altri, ma alla fine bisognava scegliere da che parte stare.
Oggi, piaccia o non piaccia, la scelta è stare in Europa o contro l’Europa. E da soli non si va da nessuna parte.
Il primo esecutivo Conte è caduto proprio perché la maggioranza giallo-verde a dominante sovranista stava andando in rotta di collisione con la Ue e senza l’aiuto di quest’ultima sarebbe stato impossibile affrontare una manovra di bilancio che si prefigurava insormontabile anche se la pandemia era di là da venire. Forse proprio nella consapevolezza di questa dinamica sta la ragione profonda dell’improvviso sussulto di Salvini che nell’agosto dello scorso anno ha affondato il Conte 1. Il Conte 2, a sua volta, è nato anche perché, meno di un mese prima della mossa del leader leghista, Ursula von der Layen era diventata presidente della Commissione Ue con una maggioranza dell’Europarlamento in cui erano confluiti in modo determinante i voti del M5S. I deputati europei pentastellati, quindi, si erano ritrovati a votare insieme ai popolari (dunque anche i rappresentanti di Forza Italia), ai socialisti-democratici e ai liberali. Per questo, nel gergo delle cronache politiche nostrane, quando un provvedimento del governo attuale beneficia dell’appoggio diretto o indiretto di Forza Italia si parla di “maggioranza Ursula”.
Lo smarcamento del M5S dal fronte sovranista è stato decisivo nel creare le condizioni politiche che hanno poi consentito la formazione del nuovo esecutivo giallo-rosso. Ma nonostante i grandi passi compiuti, l’atteggiamento dei cinquestelle rispetto all’Europa rimane ancora tutt’altro che univoco. E questo sicuramente non contribuisce a stabilizzare il quadro politico.
A questo dato di fatto si aggiunga che, in una fase in cui le elezioni nazionali sono ragionevolmente fuori dall’orizzonte immediato del Paese, gli appuntamenti elettorali con cui ci si confronta sono quelli regionali e al loro livello la linea di cesura che divide i partiti e definisce le alleanze torna sostanzialmente a essere quella tradizionale tra destra e sinistra. La tornata di fine settembre spiega una parte non irrilevante dei comportamenti delle forze politiche in queste settimane.