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A tu per tu con p. Occhetta: “ripartire dalle politiche del popolo”

M.Michela Nicolais

“Ripensare gli antidoti possibili per restituire alla politica il suo principale compito, quello di accompagnare e custodire il popolo nella fase di liquidità post-ideologica”. Parte da qui l’ultimo volume di padre Francesco Occhetta, “Le politiche del popolo”. Abbiamo chiesto al gesuita come è cambiata la politica ai tempi del coronavirus.

“Le alternative di sistema, nella storia, capitano dopo eventi traumatici”, si legge nel suo libro. Il Covid-19 è certamente uno di questi. Da dove “ripartire”, per usare uno dei verbi più ricorrenti nel volume?

I cambiamenti nascono sempre dopo crisi politiche o sociali, come l’esperienza della Costituzione italiana e quella del Concilio Vaticano II. Tre sono le direttrici: saper interpretare la (nuova) realtà con mente e cuore, perché ci sono risvolti economici ma soprattutto ci sono conseguenze umane che non possono essere taciute. Secondo,

ascoltare chi ha fatto “resistenza” per arginare ciò che si è potuto

come ad esempio le esperienze di molti medici e infermieri, amministratori coraggiosi e parroci o laici che hanno rischiato la vita per curare chi aveva bisogno. È da qui che rinasce la sussidiarietà applicata. Infine occorre ripensare “parole nuove” fondate sui beni relazionali che il mercato non produce ma ci permettono di stare insieme sotto il motto dell’Ue “unità nella diversità”. È inutile altrimenti dare un prezzo a tutto dimenticando il valore di ciò che conta.

Per Papa Francesco il concetto di “popolo” è centrale. Oggi, però, in politica il termine più in voga è “populismo”…

Nel pensiero di Papa Francesco, il popolo è una categoria storica e mitica che si costituisce in un processo in vista di un obiettivo, un progetto comune e il senso di appartenenza. La storia lo testimonia: il mito si relaziona all’idea e a ciò che è concreto, ma non si esaurisce in esso, “è un’espressione della tensione tra lo storico e il trans-storico, tra l’immanente e il trascendente”. In Francesco il popolo è un’identità con legami sociali e culturali e un processo da realizzare. Richiede un’immersione:

per comprendere un popolo bisogna entrare nel suo cuore e nelle sue tradizioni.

Natura e destino, senso di appartenenza e progetto, capacità di riconoscersi senza conoscersi. La radice sanscrita del lemma – “par-pal” – ha il senso di riunire, mettere assieme, e si trova dentro la parola parnami, “io riempio”. Dire popolo, per la Chiesa, è dire pienezza. L’identità del popolo si costruisce nella comunità di vita, ci insegna il presidente Mattarella. Si smette di essere folla composta da tante solitudini quando la cittadinanza non si limita all’“essere con” ma a un “essere per” gli altri.

La rete ha cambiato anche il modo di fare politica. La logica dell’“uno vale uno” non è proprio il contrario della politica basata sulle competenze?

Certo, la comunicazione è politica, per questo chi la cura spesso (purtroppo) guadagna di più di chi governa. Ma diventa un boomerang se pensa di bastare a se stessa o strumentalizzare le libertà dei cittadini o la gestione del consenso.

Comunica chi sa divulgare il sapere e le competenze nella logica della rappresentanza non della scelta binaria “sì” o “no”, “mi piace” o “non mi piace”.

I poteri forti sono sempre stati alleati dell’ignoranza e hanno come nemico le intelligenze.

L’emergenza sanitaria in corso ha messo in evidenza la necessità della tenuta del sistema sanitario nazionale e del suo legame costitutivo con il territorio. È da qui, da un nuovo rapporto tra dimensione locale e dimensione nazionale, che bisogna ripensare anche le città?

La parola chiave è sostenibilità urbanistica, comunitaria e politica che la chiesa chiama sussidiarietà. Le città vanno ripensate altrimenti il sacrificio che chiedono gli spostamenti, i cattivi servizi, la mancanza di spazi ecc. sono diventati insostenibili. Lo sforzo culturale passa dal

distinguere la distanza fisica che ci aiuta a prevenire il contagio dalla distanza sociale che invece ci permette di essere cittadini accomunati dallo stesso destino.

Anche sul fronte europeo l’idea di “popolo” stenta a decollare. Come dice il Papa, l’Europa “nonna” ha perso il senso delle sue radici e forse anche la consapevolezza del suo ruolo civilizzatore nel mondo. Come colmare la distanza tra le istituzioni europee e i cittadini?

Occorre continuare ad arare il solco della “formazione permanente” per riconformare una mens europea in cui tutte le urgenti riforme dei Paese vengano guardate da Bruxelles. L’appartenenza all’Europa è una “questione affettiva” che tocca “chi vogliamo” essere e “come vogliamo” vivere. Occorre poi rendere ragionevole a tutti la radice cristiana dell’Europa che pone al centro la dignità dell’uomo.

Da anni sogno dei polmoni spirituali in Europa, simili agli antichi monasteri benedettini che custodiscano la memoria e scrivano e pensino il futuro a partire dalla spiritualità.

Le domande che ha posto il presidente Sassoli in un incontro con i giovani rimangono centrali: “Perché vogliono dividerci? Quando si dice che non siamo una potenza militare a chi facciamo paura? Cosa c’è al di là dello spazio europeo?”. La nostra apparente debolezza è la forza che l’Europa può donare ai propri abitanti e ai cittadini del mondo che credono nei suoi ideali.

Secondo lei, oggi, c’è un deficit di formazione alla politica? Se sì, quali le responsabilità del mondo cattolico?

L’unica responsabilità è quella di ritornare a fare formazione rimodulando linguaggi, spazi, temi e selezione di persone vocate. L’esperienza di Comunità di Connessioni che ho visto nascere è una piccola esperienza che funziona e racconto nel volume. Può essere un aiuto a rilanciare un modello di formazione.

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