“Può essere letto come una riaffermazione del proprio potere e del controllo che ancora ha, dell’esercito e della polizia. Ma esiste anche una lettura diversa e cioè: l’uomo è sempre più in difficoltà”. Aldo Ferrari, analista di Limes, professore alla Università Ca’ Foscari di Venezia ed esperto di Europa orientale, commenta così l’annuncio fatto giovedì dal presidente bielorusso Alexander Lukashenko di voler chiudere le frontiere della Bielorussia con Polonia e Lituania e mettere l’esercito a controllo del confine con l’Ucraina.
Mettere l’esercito a controllare il confine con l’Ucraina è una mossa estremamente rischiosa. Dove vuole arrivare Lukashenko? C’è rischio di un conflitto?
Portare o rafforzare la presenza militare alle frontiere non vuol dire prepararsi ad una guerra. Lukashenko non avrebbe nessun interesse politico a farlo. Quello che presumibilmente il leader bielorusso intende fare è rafforzare i controlli ai confini in maniera che da Paesi che gli sono ostili, come la Polonia e la Lituania, non arrivino sostegni alle opposizioni interne bielorusse. Sono però manovre che servono fino ad un certo punto anche perché l’appoggio ai manifestanti può avvenire in varie forme, anche per via informatica e per via politica. Non è militarizzando le frontiere che si può fermare il flusso di idee e di consenso. Siamo di fronte quindi non tanto ad una minaccia di aggressione militare quanto a segnali che evidenziano un fatto:
Lukashenko si sente minacciato dall’esterno.
L’Unione europea ha appena approvato una serie di sanzioni contro di lui. Quanto margine di azione ha l’Ue per favorire una soluzione pacifica?
Prima di rispondere a questa domanda, partirei da una considerazione un po’ triste: non tutte le situazioni si sbloccano. Non tutti i problemi possono essere risolti. Se cominciamo ad elencare tutti i nodi irrisolti presenti nel mondo, la lista è lunghissima. Pensiamo alla questione palestinese, al conflitto congelato nel Donbass, ai conflitti interetnici del Caucaso. Insomma, non è detto che la situazione in Bielorussia abbia una soluzione positiva. Ce lo auguriamo tutti, ma potrebbero esserci esiti diversi e cioè che Lukashenko alla fine riesce, con le unghie e con i denti, soprattutto con l’appoggio della Russia e il sostengo di polizia ed esercito, a mantenere il potere superando questa fase di crisi. Può succedere.
Governare però con l’esercito e la polizia non equivale ad una dittatura?
Tornando all’Ue, cosa pensa della sua azione di condanna?
Non credo che, al di là delle pur doverose dichiarazioni di condanna, possa fare molto. Può far sentire all’opposizione di sentirsi sostenuta ma purtroppo – come la storia ci ha insegnato – le sanzioni non servono. Non funzionano se non per rafforzare il potere dei regimi autoritari.
La scorsa settimana, la Santa Sede ha inviato a Minsk mons. Paul Gallagher della segreteria di Stato per una missione diplomatica. Quale ruolo può giocare il Vaticano?
E la Russia?
È il nodo dal quale non si può prescindere per capire quanto sta succedendo in Bielorussia. La Federazione russa e il presidente Putin non possono permettere che un cambio di regime a Minsk avvenga dal basso e possa quindi essere replicabile anche in Russia. La situazione è davvero molto delicata e complessa.
Vie d’uscite?
Ci vuole molto equilibrio da tutte le parti, anche da chi in questo momento è schierato con l’opposizione. Negli ultimi anni è mancato quel processo di rinnovamento auspicato dalla popolazione. La soluzione migliore è che si vada verso una progressiva cooptazione nel governo di Lukashenko di elementi dell’opposizione capaci di rinnovare il governo del Paese preludendo l’uscita di scena di Lukashenko. L’auspicio è che la situazione migliori con equilibrio e in maniera graduale, senza sperare troppo però che dall’oggi al domani si possa giungere ad una rapida democratizzazione completa del Paese.