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Colonnella, Carla di Blasio ci racconta la propria quarantena: tra paura e speranza

COLONNELLA – “Tranquille, figlie mie: andrà tutto bene!” Quante volte ho ripetuto questa frase negli ultimi mesi! E tanta era la convinzione con cui la pronunciavo, che sono riuscita sempre a rassicurare loro e anche me stesso! Poi un mese fa le mie certezze hanno iniziato a vacillare. Leggi sul giornale o sui social il numero dei contagiati da Covid-19, sai che potrebbe potenzialmente toccare anche a te, ma in fondo al tuo cuore non pensi mai realmente che accadrà proprio a te. Quindi a stento credi sia possibile che stia succedendo proprio nella tua comunità, in un piccolo paese che è stato quasi sempre disciplinato ed organizzato. Ma poi, quando vieni a sapere che i tuoi conoscenti, i tuoi vicini, i tuoi amici stretti ci stanno dentro, il problema inizia a toccarti da vicino e la prospettiva cambia.

Il sospetto del contagio tra incredulità e rabbia
Che ansia! E che tristezza! Dopo tanti mesi di attesa eravamo finalmente riusciti nella nostra parrocchia a celebrare i Sacramenti e a viverne la gioia che ne scaturisce, una gioia avvertita in maniera anche maggiore, considerando l’attesa ed il particolare periodo da cui arriviamo. E invece neanche il tempo di festeggiare che presto, dopo solo tre giorni, mi giunge la triste notizia: un familiare di alcuni nostri invitati è risultato positivo al Covid. Non ci credo. Non è possibile! Eravamo una ventina di persone, un gruppo ristrettissimo di invitati: solo i parenti stretti, la madrina e quattro amici. Persone selezionate, conosciute, attente come noi ad indossare la mascherina e a rispettare tutte le norme. Tavoli separati, distanziamento rispettato, pranzo in veranda. Possibile che stia succedendo a noi?! Dopo i primi minuti, trascorsi tra l’incredulità e la rabbia, sono arrivati i pensieri … e, con loro, anche la paura. E se fossimo stati contagiati? Ma no, dai, in fondo noi non abbiamo incontrato di recente il nostro amico, alla nostra festa lui non ha partecipato, quindi tutto sommato possiamo stare tranquilli. E invece no, non possiamo chiamarci fuori, perché siamo stati a pranzo con la sorella ed i genitori. Se uno di loro fosse positivo? E se anche noi lo fossimo? Ansia e tensione salgono, ma cerchiamo di tranquillizzarci e rassicurarci a vicenda. In fondo, se anche l’avessimo beccato, dovremmo avere pressappoco i sintomi di un’influenza. Sembra che di casi gravi ce ne siano sempre meno. Vuoi che proprio noi adesso dobbiamo rientrare fra questi?! E poi non ci fasciamo la testa prima di essercela rotta! Chiamiamo i medici e vediamo cosa ci dicono.

L’impresa eroica di parlare al telefono con medici ed Asl
Inizia così l’avventura delle chiamate al pediatra, al medico di base e alla Asl. Il tempo sembra essersi fermato e la giornata sembra interminabile! Ore ed ore al telefono. In realtà i minuti di conversazione sono stati pochissimi, ma il tempo trascorso, in attesa di parlare con qualcuno, è stato infinito! Con il pediatra ce la siamo cavata bene: avevamo il numero di cellulare, quindi è bastato un messaggio per essere ricontattati tempestivamente. Ma per il medico di base trovare la linea libera tra la chiamata di un paziente e quella di un altro è stato come vincere al superenalotto! Comunque, con un po’ di perseveranza e tanta pazienza, ci siamo riusciti! Ma con la Asl è tutta un’altra storia. Linea quasi sempre occupata, a tratti libera ma senza risposta. Decido di chiamare il numero verde dedicato alle problematiche sul Covid e mi viene detto che quel numero non risponde più su questioni legate al Covid! Se non fossi stata preoccupata, forse ci avrei trovato anche un lato comico in quelle parole! Comunque mi dicono di provare a chiamare un altro numero, a cui inizialmente non risponde nessuno. Dopo aver provato con insistenza, finalmente una voce si fa sentire e mi dice che non sa rispondere alle mie domande, quindi devo fare un altro numero ancora. Chiamo, richiamo e chiamo ancora, ma è sempre occupato. Quanta tensione e quanta rabbia in quei momenti! Avere un riscontro celere, una voce amica, una parola confortante: ecco cosa ci si aspetta quando si chiama. Invece no! Poi finalmente rispondono e mi dicono che, al momento, noi non rientriamo nel programma di tracciamento della Asl: perché la Asl si muova, ci deve essere stato un contatto diretto con il contagiato, quindi, in attesa dell’esito dei tamponi dei familiari del contagiato, non è possibile per noi effettuare il tampone.

La scelta dell’isolamento volontario
E allora che facciamo? Per la legge, per la Asl, per la scuola, noi possiamo tranquillamente fare la nostra vita normale, andare a lavoro e a scuola, frequentare chi vogliamo e uscire quando vogliamo. Poi ci pensi un attimo e ti chiedi: “Ma se un collega mio o di mio marito oppure un compagno di classe di una delle mie figlie avesse il sospetto di essere stato contagiato, io preferirei che stesse a casa per precauzione o che andasse regolarmente a lavoro o a scuola con il rischio di infettare gli altri?” La risposta è facilmente intuibile e, anche se non mi piace, devo tenerne conto. Quindi c’è una sola scelta giusta da fare: mettersi in isolamento. Così io e mio marito ci attiviamo per avvisare i nostri colleghi di lavoro e chiamare anche le insegnanti delle nostre figlie. Tanto alla Scuola Media quanto alle Superiori racconto tutta la storia. Frasi di dispiacere, qualcuna di timore, ma soprattutto parole di incoraggiamento: “Signora, stia tranquilla, ce lo aspettavamo, sapevamo che prima o poi sarebbe capitato e siamo coscienti che potrebbe ricapitare.”

L’impatto sociale
Finalmente, dopo aver fatto tutte le chiamate, metto il telefono a ricaricare e mi stendo sul divano con l’intento di rilassarmi un attimo. Ma è una vana illusione. Neanche il tempo di riflettere che iniziano le chiamate, i messaggi, le videochiamate, i messaggi vocali. “Scusa, Carla, ma è vero che anche voi …?” – “Ma siete stati a pranzo insieme, vero?…” – “Ma tuo marito è stato contagiato, vero? …” Sebbene all’inizio sia stata un po’ sorpresa da tutta questa attenzione sociale e da come la notizia si sia diffusa prima ancora che arrivasse a me dal diretto interessato, tuttavia dopo un po’ me ne sono fatta una ragione: del resto il detto Il paese è piccolo e la gente mormora, dalle mie parti, ha sempre trovato la sua piena realizzazione! Un giorno intero al telefono, tra chiamate di conoscenti, amici e parenti: qualcuno è solo curioso e chiede dettagli per poter aggiornare il bollettino al bar o sulle varie chat di gruppo; qualcuno è anche polemico e critica la scelta di aver celebrato il sacramento; qualcuno è preso dall’ansia, si preoccupa perché, anche se ci ha incontrato il giorno prima solo per qualche minuto e con la mascherina, teme comunque di essere stato contagiato; qualcuno, fortunatamente, cerca di tirare su il morale a tutti noi, dando coraggio e rassicurazioni. Insomma il riscontro sociale è ambiguo: chi ti vede come il possible prossimo untore e chi invece ti offre aiuto e solidarietà per superare il momento. Difficile raccontare le sensazioni provate: apprensione, inquietudine, ansia, rabbia, ma ogni cosa molto amplificata rispetto al problema in sè. Chissà perché! Forse perché siamo stati condizionati dagli altri, perché ogni emozione è stata vissuta collettivamente. È stato in quel preciso momento che ho capito che, qualsiasi cosa fosse successa, non sarebbe stato un problema solo mio, ma avrei dovuto condividerlo, nel bene o nel male, con tutta una comunità.

L’attesa e la paura
Inizia così l’attesa. Un’attesa che potrei definire fiduciosa all’inizio, anche se la fiducia è durata ben poco. Dopo due giorni è arrivato, infatti, l’esito del tampone effettuato dai familiari del nostro amico e purtroppo uno di loro è risultato positivo al Covid. Da quel momento in poi anche la nostra famiglia è entrata nell’iter di tracciabilità della Asl, avendo noi avuto un contatto diretto con questo familiare. Abbiamo pensato che in due giorni anche noi ci saremmo tolti il dubbio; invece no. La richiesta del medico è partita il venerdì, il tampone ci è stato fatto il martedì successivo e l’esito è arrivato il venerdì della settimana dopo. Abbiamo dovuto sollecitare più volte, prima che ci venisse dato un riscontro. Un’attesa snervante in cui i pensieri si sono susseguiti rapidi, incessanti e hanno logorato ogni certezza. Se ci penso con la calma e la razionalità di ora, mi chiedo di cosa avessi paura allora. Ma non mi so rispondere. In quei momenti ero divorata dall’ansia e dal timore. Mio marito ed io cercavamo di lavorare da casa e di far studiare le ragazze, ma la concentrazione andava e veniva, soprattutto quando all’improvviso una delle due starnutiva o aveva un colpo di tosse. Quando a nostra figlia è arrivata anche la febbre, ho pensato al peggio. Non mi ero mai preoccupata così in vita mia per una temperatura di 37,5°: ora, invece, tutto assumeva un significato cupo e minaccioso. Già, la paura fa questo. La paura immobilizza, non ti fa fare nulla, ti annienta, rende tutto opaco, a tratti buio. E l’attesa, con uno stato d’animo così, risulta infinita!

La solidarietà degli amici
Ovviamente non puoi lasciarti andare, soprattutto perché hai due figlie che si aspettano da te conforto, rassicurazioni e sorrisi. A dire il vero – si aspettano anche gli abbracci, ma, per un po’, rinunci anche a quelli, per proteggerle. Per fortuna ci sono gli amici, quelli veri. Quelli che chiamano per sapere se hai bisogno d’aiuto. Quelli che ti vanno a fare la spesa e te la portano a casa. Quelli che mandano i compiti alle tue figlie. Quelli che vogliono sapere come stai, quindi se hai la febbre o qualche altro sintomo. Quelli che vogliono sapere come ti senti, cioè se ti sei annoiato o scoraggiato o demoralizzato. Quelli che non ti chiedono nulla, perché già sanno come ti senti. Quelli che ti ricordano nelle loro preghiere. Quelli che ti mandano questo messaggio prima di andare a dormire: Ti ricordi cosa mi dicevi quando ero in attesa dell’esito di quell’esame che mi ha cambiato la vita? Ora sono io a dirtelo. Vedrai che Seneca farà bene anche a te! “Anche se il timore avrà sempre più argomenti, tu scegli la speranza e smetti di turbarti.”  Mi è scappata una lacrima, ma mi è tornato subito anche il sorriso! La mia amica aveva ragione: dov’era finita la speranza?!

L’epilogo
Il giorno dopo, quando ormai erano passati 13 giorni dal contatto avuto con la persona contagiata, è finalmente giunto l’esito del tampone: negativo per me e per tutti i miei familiari. Ho tirato un sospiro di sollievo, ma non mi sono sentita subito bene. Ho pensato a lungo a quella paura che avevo provato, al fatto che sarà un lungo inverno e che quella paura potrà tornare. Ho pensato anche al fatto che questa paura è diversa da tutte le paure provate prima. È diversa perché abbraccia la nostra intimità, vietandoci di abbracciarci e stringerci. È diversa perché limita ogni momento della nostra giornata, trasformando radicalmente i nostri consueti gesti quotidiani. È diversa anche perché riguarda tutti, nessuno può dirsi fuori e nessuno può ignorarla. È diversa perché obbliga se stessi al rispetto delle regole, ma anche alla fiducia nel prossimo. È diversa perché richiede coraggio e speranza per essere superata, per affrontare il difficile presente e confidare in un futuro migliore. È diversa perché, in fondo, misura la nostra fede, nel prossimo e in Dio.