Giovanni M. Capetta
I coniugi sappiano di essere cooperatori dell’amore di Dio Creatore e quasi suoi interpreti nel compito di trasmettere la vita umana e di educarla; ciò deve essere considerato come missione loro propria. […]
Il matrimonio tuttavia non è stato istituito soltanto per la procreazione; il carattere stesso di alleanza indissolubile tra persone e il bene dei figli esigono che anche il mutuo amore dei coniugi abbia le sue giuste manifestazioni, si sviluppi e arrivi a maturità. E perciò anche se la prole, molto spesso tanto vivamente desiderata, non c’è, il matrimonio perdura come comunità e comunione di tutta la vita e conserva il suo valore e la sua indissolubilità.
Gaudium et Spes, n. 50, 7 dicembre 1965
Un intero paragrafo dedicato alla fecondità nel matrimonio ci porta al cuore della relazione coniugale, ovvero alla sua facoltà di generare la vita. Le parole che il documento conciliare utilizza sono particolarmente significative: “il matrimonio e l’amore coniugale sono ordinati per loro natura alla procreazione ed educazione della prole”, Dio ha voluto comunicare all’uomo “una speciale partecipazione nella sua opera creatrice” (GS 50). Il dono della fertilità è incommensurabile e rende gli sposi “cooperatori dell’amore di Dio”, un ruolo altissimo che dona a tutti i genitori una gioia indicibile, ma li pone anche di fronte alla responsabilità di aumentare il numero dei figli di Dio. Lette in quest’ottica la paternità e la maternità non possono essere vissute come una prerogativa frutto solo di una volontà umana, ma rientrano in un progetto provvidenziale molto più grande, che allontana dal pericolo dell’egoismo e del possesso che pure insidiano costantemente la relazione con i figli. Spetta, quindi, a marito e moglie formarsi un “retto giudizio” rispetto al numero di figli che doneranno al mondo, un discernimento personale, affidato alla loro coscienza, a sua volta ispirata, però, dal magistero della Chiesa. Si tratta dei presupposti di quella paternità e maternità responsabili che vedono in questi testi i primi fondamenti e che troveranno ampliamento nel magistero di Paolo VI (in particolare nella enciclica Humanae Vitae che sarà emanata da qui a qualche anno) e poi in quello di Giovanni Paolo II. Al termine di questo numero 50 sul dono della vita, i padri conciliari decidono, però, di aggiungere un paragrafo di grande importanza. In esso viene precisato che il matrimonio non è istituito soltanto per la procreazione. È un concetto nuovo e non scontato, che rinnova la dottrina morale su questo argomento. Il matrimonio conserva il suo valore e la sua indissolubilità anche se non arrivano i magari tanto desiderati figli. L’amore dei coniugi ha le sue manifestazioni, si sviluppa e arriva a maturità anche qualora non sia fertile dal punto di vista biologico. Si tratta di un grande spazio di libertà che si apre per tutte quelle coppie che scoprono di non poter avere figli. Uno spazio di libertà che amplifica l’amore fra gli sposi e inizia a contemplare la dimensione unitiva e procreativa così come da adesso in avanti saranno espresse nel magistero.
Lo scopo dell’amore coniugale non è solo la procreazione, ma ha un valore in sé nel mutuo scambio fra i coniugi. Questa verità, che vale per ogni atto sessuale di tutti gli sposi, è ancora più cogente per coloro che hanno scoperto di non poter generare la vita. Ad essi è affidato il compito speciale di testimoniare che l’amore nuziale ha una sua fecondità propria, che va oltre la possibilità di procreare. Molte coppie cristiane che vivono la croce dell’infertilità sperimentano giorno per giorno che il loro amore genera altri frutti, che non sono i figli naturali. Basti pensare a tutti i percorsi di adozione e di affido che vedono coinvolti genitori esemplari per capacità di ascolto e di educazione, ma a ciò si aggiungono tantissime dimensioni di servizio che generano rapporti di figliolanza o fraternità spirituale in cui la coppia dona i frutti maturi del suo stesso amore inserendosi nel circuito più grande dell’amore di Dio per il mondo.