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I cattolici latini nell’Egitto delle contraddizioni

Paolo Annechini

Il 6 agosto scorso Papa Francesco ha nominato il comboniano padre Claudio Lurati nuovo vicario apostolico di Alessandria d’Egitto. La consacrazione episcopale è avvenuta il 30 ottobre scorso. Si tratta di un incarico delicato sotto vari aspetti. Soprattutto considerato il controverso scenario politico entro il quale si muove l’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi. Padre Claudio, comasco di origine, classe 1962, ordinato sacerdote nel 1989, è stato missionario in Kenia, in Sud Sudan, e in Egitto dal 1997 fino al 2007, quando è rientrato in Italia per assumere l’incarico di economo generale della Congregazione, racconta la sua esperienza.

Padre Claudio, come legge questa nomina e che effetto le fa?
La leggo come bisogno di dare continuità all’azione del vicariato. Dalla morte del vicario apostolico precedente, il francescano Adel Zaky, il 21 luglio 2019, il vicariato è con la sede vacante retta da un amministratore apostolico. Che effetto mi fa? Da un lato c’è apprensione per un incarico complesso e non solo per il contesto linguistico e culturale. Dall’altro, la cura di una comunità piccola qual è quella dei cattolici latini in Egitto, fortemente internazionale, che si confronta con altri cristiani in un contesto islamico, rappresenta una sfida certamente stimolante.

Ci descriva la comunità dei cattolici latini in Egitto.
C’è il nucleo storico, oggi minoritario, composto dai cattolici latini nati in Egitto, di nazionalità egiziana, discendenti di grosse comunità europee che vissero in Egitto fino alla nazionalizzazione del canale di Suez. Molti se ne andarono, ma non pochi rimasero. A questi si è aggiunta una grossa comunità di cattolici provenienti dal Sudan che cercano in Egitto una vita più confortevole. Oltre a questo secondo gruppo c’è il terzo gruppo, ovvero le migliaia di lavoratori stranieri, cattolici, che si trovano in Egitto per lavoro: asiatici, europei, americani.
Cattolici latini vuol dire che si rifanno alla tradizione di Roma pregando nelle lingue praticate oggi in Egitto: l’arabo, il francese, l’inglese, a seconda del contesto nel quale ci si trova.

Come vede il suo lavoro?
Innanzitutto vedo un lavoro su me stesso, devo rinfrescare l’arabo e le altre lingue parlate che non parlo da 12 anni, da quando ho lasciato l’Egitto. Poi c’è il lavoro con la realtà dei cattolici latini, con 30 parrocchie in tutto l’Egitto, 150 sacerdoti e religiosi, 250 religiose con le loro opere, molto prestigiose e riconosciute a livello sociale, soprattutto scuole e ospedali. E infine occorre guardare fuori dalla finestra…

Cosa vede guardando fuori dalla finestra?
Vedo la miriade delle altre confessioni cristiane presenti in Egitto, i sette milioni di cristiani ortodossi copti, l’immenso e variegato mondo islamico.

Dove sta andando l’Egitto?
Va verso la modernità, affrontando sfide immani. A cominciare da quella demografica, con una popolazione che cresce ogni anno di mezzo milione.
E poi c’è la sfida del terrorismo e del fondamentalismo religioso in una terra dove tutti, cristiani e musulmani, da sempre si sentono a casa propria.

Egitto terra comboniana…
Sì, san Daniele Comboni iniziò lì la sua missione con gli Istituti nel 1877. Poi il centro della Nigrizia si spostò più a Sud. Solo recentemente i Comboniani hanno rivalutato l’Egitto con la consapevolezza dell’importanza del dialogo con il mondo islamico. La mia nomina la vedo come un atto di servizio alla Chiesa, che porterò avanti nello spirito del Comboni, cercando il potenziale locale, apprezzando quello che c’è.