Giovanni M. Capetta
Perciò l’amore coniugale richiede dagli sposi che essi conoscano convenientemente la loro missione di paternità responsabile, sulla quale oggi a buon diritto tanto si insiste e che va anch’essa esattamente compresa. […] Nel compito di trasmettere la vita, essi non sono quindi liberi di procedere a proprio arbitrio, come se potessero determinare in modo del tutto autonomo le vie oneste da seguire, ma, al contrario, devono conformare il loro agire all’intenzione creatrice di Dio, espressa nella stessa natura del matrimonio e dei suoi atti, e manifestata dall’insegnamento costante della chiesa.
Paolo VI, lettera enciclica Humanae Vitae, n.10 – 25 luglio 1968
1968! Un anno simbolicamente evocativo, che riconduce subito a un periodo di tensioni, di scontri generazionali, di fermento. Anche la Chiesa vive un suo momento di confronto acceso nella ricezione dell’ultima lettera enciclica promulgata da Paolo VI, l’Humanae Vitae. Un documento che ha visto una travagliata gestazione, risalente agli anni del Concilio Vaticano II, durante i quali Giovanni XXIII aveva istituito la Commissione pontificia per lo studio della popolazione, della famiglia e della natalità, successivamente confermata e ampliata da Paolo VI, il quale aveva poi stralciato dalla discussione conciliare e avocato a sé il giudizio su come comporre l’amore coniugale e la procreazione responsabile. Consapevole della gravità dell’argomento, Paolo VI scrive quella che può considerarsi da allora “pietra di inciampo che ha impedito l’aggiornamento della morale coniugale oppure pietra di confine che ha stabilito dei limiti invalicabili”. Superando questa polarizzazione il documento può essere considerato – scrive Aristide Fumagalli in “Humanae Vitae. Una pietra miliare” – Queriniana 2019 – “una pietra miliare il cui significato non è quello di congelare la dottrina morale della Chiesa, ma di orientare il suo sviluppo”. Stabilire come inscindibili nell’atto coniugale il significato unitivo e il significato procreativo comporta che vi siano dei metodi naturali per la regolazione della natalità e delle vie, invece, illecite, ovvero quelle artificiali. Ma se questo è il centro dottrinale della lettera, il punto su cui ancora oggi tanto si discute, l’enciclica può essere letta anche nella sua complessità come uno strumento atto a spronare gli sposi e tutta la comunità ecclesiale ad amare la vita nella sua dimensione di dono e di mistero. Amare la vita che comporta essere docili alla comprensione delle sue dinamiche, comprese quelle della procreazione. La prima responsabilità dei coniugi è sapersi dimostrare aperti ad una vita più grande, che non si esaurisce nello spazio egoistico della coppia, ma si allarga ad una prossimità che è in prima istanza quella dei figli, ma poi quella di tutti coloro che si incontrano nel cammino di un’esistenza. La famiglia come seme di Vangelo per il mondo. Alla luce di questa dimensione di accoglienza si possono leggere le disposizioni dottrinali dell’enciclica. Un testo che obbiettivamente pone interrogativi, suscita ancora domande, sollecita delle attenzioni e delle fatiche. Quello che è certo è che si tratta di un documento che oggi, a più di cinquant’anni di distanza, ha ancora bisogno di essere preso in seria considerazione da parte delle coppie, ma prima ancora dai pastori, che non si devono esimere da un lavoro di lettura, di riflessione condivisa, senza stancarsi di spiegarlo, enuclearlo e applicarlo alla vita concreta delle famiglie. Si ha l’impressione che Humanae Vitae, “che Paolo VI ha scritto – secondo un’espressione del cardinal Ratzinger nel 1995 – a partire da una decisione di coscienza profondamente sofferta” abbia avviato un discorso che rimane ancora aperto e che, di fatto, è stato ripreso in tanti altri documenti ecclesiali: limitandoci solo ai testi papali, si pensi alla esortazione apostolica Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II e le sue Catechesi sull’amore umano fino alla molto più recente Amoris Laetitia di Francesco. È un evidenza che in merito al grande tema dell’amore coniugale il magistero dei Papi si sviluppa in una continuità feconda, facendosi carico del patrimonio di discernimento dei predecessori e riproponendolo, alla luce al Vangelo, all’umanità del proprio tempo. Questa è la dimostrazione che la Chiesa in ogni tempo si fa compagna di strada degli uomini e delle donne, non solo dei battezzati, perché non considera a sé estraneo nulla di ciò che riguarda l’umano. Ai singoli, alle coppie, alle comunità l’onere di non lasciare impolverare i documenti del magistero, ma di farli parlare e vivere come preziosi compagni di strada.