da Vatican News – Antonella Palermo –
Bhasan Chan è un’isola di limo, 52 chilometri quadrati nel golfo del Bengala, spesso spazzata da cicloni e inondazioni. Qui il governo bangalese ha trasferito oltre 1600 Rohingya birmani dai campi profughi di Cox’s Bazar, a sud est del Paese.
Due giorni fa l’ufficio delle Nazioni Unite in Bangladesh aveva pubblicato uno stringato comunicato, nel quale si sottolineava di “non essere coinvolto” nel processo di ricollocamento e di aver ricevuto “poche informazioni” al riguardo. Secondo il comunicato, alle Nazioni Unite non è stato permesso di valutare in modo indipendente la “sicurezza, la fattibilità e la praticabilità” dell’isola. Si afferma inoltre che i profughi “devono poter prendere una decisione libera e informata sul loro reinsediamento” e, una volta lì, devono avere accesso all’istruzione e all’assistenza sanitaria e anche poter andarsene se lo desiderano. Ma le organizzazioni per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch e Amnesty International, giovedì hanno riferito che alcuni rifugiati sono stati costretti al trasferimento, cosa che il ministro degli Esteri del Bangladesh. K. Abdul Momen ha negato. Il capo dicastero ha precisato che sull’isola le strutture sono state potenziate, assicurando fornitura ininterrotta di elettricità e acqua, presenza di terreni agricoli, due ospedali, quattro cliniche comunitarie, moschee, magazzini, servizi di telecomunicazione, stazione di polizia, centri ricreativi e di apprendimento, campi da gioco. Lavori in cui il governo avrebbe investito 400 milioni di dollari, in particolare per la costruzione di rifugi e una diga alta tre metri attorno agli edifici.
“Sognare è lecito. Purtroppo la situazione di tanti rifugiati è drammatica in tante aree del mondo. Ci vorrebbero tanti aiuti internazionali per far in modo che le condizioni nei campi profughi fossero un po’ più decenti”, spiega Papi. Aggiunge che “se il governo del Bangladesh viene lasciato solo, naturalmente inventa qualcosa come le isole, poiché anche molti bengalesi non tollerano più la presenza di rifugiati. E la guerra fra poveri può causare conseguenze drammatiche per tutti. Prevedo che questa ‘deportazione volontaria’ continuerà. Paradossalmente, per chi vive in una tenda stipato, senza nessuna igiene e senza cibo, vivere su un’isola può essere uno scenario migliore. Ma possiamo immaginare quali speranze possono profilarsi per un bambino che vive là? Speriamo sia una condizione temporanea”.
Sulle prospettive per i Rohingya di tornare in Myanmar – 730mila persone di questa minoranza etnica sono fuggite da un’offensiva militare avvenuta in Myanmar tre anni fa, alcune migliaia si sono stabilite in India e Malaysia – Papi è scettico: “Ai Rohingya sono stati negati i diritti basilari per generazioni. Sono stati privati finanche di una vera e propria identità. “Con qualche anno di tempo si può sperare che possa cambiare la situazione in Myanmar, però a patto che la comunità internazionale sia disposta ad aiutare anche economicamente una ricollocazione in un Paese che è il loro, ma dove non vengono considerati cittadini, pur avendoci vissuto da duecento anni”.
Nell’ambito del viaggio apostolico in Myanmar e Bangladesh nel 2017, Papa Francesco al termine dell’incontro interreligioso ed ecumenico per la pace, aveva salutato un gruppo di profughi Rohingya. La vostra tragedia, aveva affermato in quell’occasione il Pontefice, è “molto grande”. “Ma facciamo spazio nel nostro cuore”. “A nome di tutti, di quelli che vi perseguitano, di quelli che hanno fatto del male, soprattutto per l’indifferenza del mondo, vi chiedo perdono”.
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