Più di una persona ha storto il naso perché a suo dire in qualità di assessore non si può esprimere contro una legge dello Stato. Ma le leggi in uno stato democratico non sono immutabili e sono sempre perfettibili. Ma anche qualora fosse la sua personale opinione, perché non potrebbe esprimerla? Si può non essere d’accordo, ma non si può censurare o – peggio – delegittimare l’altro soltanto perché ha un pensiero diverso dal nostro.
Molti hanno fatto presente che in ballo c’è il diritto di scelta della donna. Si tratta senza dubbio di un fattore determinante nella questione, ma non l’unico. Infatti troppo spesso non si fa alcun riferimento al nascituro. Men che meno si parla del padre che pure è menzionato all’articolo 5 della legge 194 (la cui presenza è ammessa in consultorio se la donna non si oppone), che viene citata – quasi dogmaticamente verrebbe da dire – ma che forse pochi conoscono in tutti i suoi risvolti. Quello che rattrista è che non si viene scalfiti neppure dal minimo dubbio che quella che viene interrotta è una vita.
Altro costante ritornello è quello di un ritorno al passato o – come spesso si dice – al Medioevo. È impressionante come nel dibattito pubblico odierno, di qualsiasi argomento si discuta, i criteri di giudizio vero/falso, buono/cattivo e giusto/sbagliato – criteri di cui la natura ci ha dotato – siano costantemente sostituiti da criteri cronologici quali antico/moderno, indietro/avanti e arretrato/avanzato che nulla hanno da dire sul valore delle azioni umane. Sembra che le impressioni derivate dalle emozioni abbiano sostituito le motivazioni dettate dalla ragione. Abbiamo necessità di riportare il dibattito pubblico sul terreno della ragione al fine di scongiurare quella
«dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie» (Joseph Ratzinger).
Ammesso e non concesso che si adotti il criterio cronologico come guida delle nostre opinioni, bisogna rilevare che se c’è qualcosa che non è al passo con i tempi è proprio la 194 che è «frutto di un referendum che considerava allora un “grumo di sangue” il prodotto del concepimento ma che oggi, al contrario, con la moderna diagnostica e ricerca scientifica, sappiamo essere vita e del quale già alla sesta settimana di gravidanza avvertiamo il battito cardiaco» secondo quanto osservato da Stefano Ojetti, Vicepresidente Nazionale dell’Associazione Medici Cattolici Italiani.
È pensiero comune che la 194 sia sinonimo di aborto, ma se si legge attentamente il testo della legge risulta evidente che l’intento del legislatore non è promuovere l’aborto come unica soluzione. Infatti è compito del consultorio prospettare «le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto». Questo significa, ad esempio, che si dovrebbe potenziare l’azione dei consultori, rendere più facile l’accesso agli asili nido in modo da conciliare maternità e lavoro, riconoscere la maternità non solo come evento privato ma come fattore di sviluppo sociale e in quanto tale da agevolare con maggiori musure previdenziali, rendere pubblica attraverso campagne mediatiche la possibilità di partorire in anonimato.
È infine indegna la costante criminalizzazione dell’obiezione di coscienza, additata quasi come una pratica ai limiti della legalità, quando questa opzione è prevista proprio dalla 194. Semmai bisognerebbe farsi un’altra domanda: come mai un numero così alto di addetti ai lavori che offrono le loro competenze e la loro professionalità nel campo dell’ostetricia e della ginecologia preferisce avvalersi dell’obiezione di coscienza?
Il rispetto della vita sin dal suo concepimento, prima ancora che essere un insegnamento della Chiesa, è un fatto di umanità. Una società – ha ricordato Papa Francesco – merita la qualifica di “civile” solo «se sviluppa gli anticorpi contro la cultura dello scarto; se riconosce il valore intangibile della vita umana; se la solidarietà è fattivamente praticata e salvaguardata come fondamento della convivenza».