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Istituto Teologico Marchigiano, Natale: aderire all’incarnazione

Dall’Istituto Teologico Marchigiano, prof. Enrico Brancozzi

MARCHE – È curioso che il Natale sia diventato nella percezione comune una festa “di famiglia”, qualcosa di rassicurante in cui rievocare tradizioni locali e folklore. Eppure in questa solennità liturgica i cristiani fanno memoria del mistero dell’incarnazione, l’esperienza più controversa e più contestata dalle eresie antiche. Non a caso, l’incarnazione diviene nei primi secoli il tema centrale da annunciare e da salvaguardare nelle professioni di fede e nelle definizioni conciliari. Una festa religiosa, dunque, che ricorda aspri scontri culturali perché solleva una serie di obiezioni filosofico-teologiche come la possibilità del divenire in Dio, l’integrità della natura umana assunta dal Verbo, l’unità del Figlio di Dio fatto uomo.

La Chiesa ha difeso questo principio, oltre che per una ragione storico-teologica, anche per una preoccupazione soteriologica, e cioè per il fatto che quod non assumptum, non sanatum, secondo l’adagio classico. La fonte dell’efficacia assoluta della salvezza portata dall’evento Cristo risiede nel suo particolare statuto ontologico umano-divino.

La dottrina cristiana dell’incarnazione è stata avversata, oltre che nell’antichità, anche dai movimenti antitrinitari del periodo della Riforma, dai deisti, da una parte della teologia liberale e del modernismo. Anche recentemente è stata considerata un mito: l’incarnazione sarebbe cioè il mito dell’uomo Gesù per mezzo del quale Dio avrebbe manifestato una sua presenza particolarmente efficace di salvezza. Dunque Gesù Cristo non sarebbe propriamente il Dio incarnato, ma una figura carismatica attraverso la quale Dio avrebbe operato una delle tante forme di salvezza, non l’unica né la principale.

Accanto ad obiezioni di carattere intellettuale, sempre presenti e ormai note, compare oggi una contestazione di tipo pratico, forse inconsapevole: il tentativo di vivere un cristianesimo come se Dio non si fosse realmente incarnato. La fede nell’incarnazione obbliga infatti ad una fedeltà alla storia come indispensabile mezzo di rivelazione del Dio unitrino. Le dolorose vicende della pandemia in cui siamo immersi hanno reso evidente che questo principio non è vero per tutti i credenti, o almeno non lo è allo stesso grado. Il Covid-19 ha riportato alla luce una componente ampia del cristianesimo che considera la Chiesa una “societas perfecta”, un’istituzione autosufficiente dotata da Dio di tutti gli strumenti per solcare la storia in modo impermeabile. Il fatto che ad oggi vi siano nel mondo settanta milioni di contagiati e più di un milione e mezzo di morti non è un dato che può realmente mettere in crisi e interrogare, eventualmente obbligando a rivedere le proprie prassi assembleari e celebrative. Se l’economia mondiale, il mondo del lavoro, la sanità pubblica avranno un dissesto la cui onda d’urto è ancora difficilmente prevedibile, ciò è certamente una cattiva notizia, ma non tale da interpellare radicalmente la nostra responsabilità ed eventualmente spingerci ad un ripensamento etico. Il cristianesimo è insomma percepito come una zona franca, una sorta di buco nero dove le leggi della fisica (cioè dell’umano) non valgono più. Appare pertinente ciò che ha scritto recentemente Ivo Lizzola: occorre «vivere una sorta di pulizia dello spirito, di ritorno alla Parola, di ritrovamento dell’interiorità, è questo il tempo che ci è dato. Che è sempre tempo opportuno (kairós di san Paolo)» (Un senso a questi giorni, 20). Buon Natale 2020!