Andrea Casavecchia

È difficile conoscere la realtà dei senza fissa dimora e impegnativo è offrire loro assistenza. I più poveri e più emarginati, senza una residenza sono anche invisibili alle tecniche di rilevazione ufficiali. I ricercatori propongono delle stime: in Italia se ne contano tra i 55 e i 60mila. Forse sono le vittime meno considerate di questo tempo dove convergono crisi economica e crisi sanitaria.
Quanti vivono ai margini, quanti vivono di elemosina sui marciapiedi, faticano a trovare il passante che li aiuti in un tempo dove a tutti è chiesto di distanziarsi, di limitare gli spostamenti, di circoscrivere gli incontri. Da un lato le persone più scomode da incontrare sono anche le prime a essere evitate. Dall’altro lato gli stessi servizi che sono deputati a offrire un sostegno hanno dovuto affrontare un ulteriore ostacolo durante questa crisi straordinaria.
Appaiono estremamente significativi, allora, i primi risultati dell’indagine: “L’impatto della pandemia sui servizi per le persone senza fissa dimora”, condotta dall’istituto di ricerca Iref insieme alla Federazione Italiana degli organismi per le Persone senza Fissa Dimora (FioPSD) e alla Caritas. Le informazioni raccolte sono state recuperate attraverso interviste agli operatori e ai coordinatori dei servizi, che hanno espresso gli ostacoli incontrati.
Si legge nel rapporto che la prima questione è stata la riorganizzazione di servizi che si svolgevano tutti in presenza, dal centro di ascolto, ai percorsi di accompagnamento per tentare un reinserimento sociale. Molti interventi sono stati sospesi per cercare di conservare quelli diretti ai bisogni primari. Per andare incontro a tutti, le mense hanno offerto pasti da asporto. Alcuni dormitori si sono trasformati in “case” per permettere agli ospiti di soggiornare più a lungo. Questo però ha causato un blocco dei nuovi ingressi. In alcuni casi per quelli che – rimasti in strada – non avevano la possibilità di alloggio sono intervenuti i comuni, offrendo loro strutture per ampliare la recezione.
Un’altra questione emersa è stata la paura del contagio. C’è stata una barriera di sfiducia da superare sia da parte dei senza fissa dimora assistiti, ai quali veniva chiesto di cambiare alcune abitudini del loro stile di vita, sia da parte degli operatori e volontari che mettevano a repentaglio la loro salute. Questi ultimi, d’altra parte, hanno pagato la fatica di tempi di lavoro prolungati e la tensione della pressione psicologica.
Questo tempo di emergenza ha offerto anche la possibilità di riflettere sul futuro. Il report evidenzia tre temi: innanzitutto, l’isolamento di questi servizi che richiede di includerli in “una programmazione territoriale strategica”, per valorizzare i soggetti esistenti all’interno di una rete, che proprio il tempo della pandemia ha fatto emergere. Poi, investire in interventi che promuovano le potenzialità dei senza fissa dimora, infine promuovere partenariati pubblico-privati per attivare risorse adeguate di un fenomeno che purtroppo potrebbe crescere a causa degli effetti della crisi economica.

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