Dopo la cerimonia che si è tenuta ieri, in occasione del cinquantesimo anniversario del naufragio del Rodi, riproponiamo l’intervento del direttore Pietro Pompei
SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Non è facile tornare con la memoria, dopo mezzo secolo, su un episodio così triste come la tragedia del Rodi, quando affetti personali furono sottoposti a un terribile scossone da desiderare di dimenticare il tutto quanto prima. Non è stato possibile e il riproporlo significa rivivere quei tristi momenti.
La mattina del 23 dicembre 1970 nei vari luoghi pubblici fu notato qualcosa di insolito da sussurrare quasi nascosto e dagli sguardi improvvisamente tristi. Rientrava nelle nostre abitudini quando si voleva comunicare un fatto grave nella nostra città di cui però non si aveva certezza. Da bambini siamo stati educati a questi atteggiamenti, perché le frequenti disgrazie in mare lasciavano sempre un margine di speranza. Si era all’antivigilia di Natale e il Rodi partito da Venezia il pomeriggio del giorno prima, dopo aver fatto le consuete riparazioni, non era rientrato nel nostro porto e non si sapeva dove fosse. Già circolavano molte congetture, ma con una nave fatta per la pesca atlantica e revisionata, lontano era il pensiero di una possibile disgrazia. Continuava l’attesa dei familiari, quando giunse la notizia di un relitto alla foce del Tronto con la prua fuori dell’acqua. Ma nulla di certo. Solo nel primo pomeriggio la terribile notizia di un salvagente rinvenuto con il nome del Rodi ed altri oggetti, per cui il sospetto diventò certezza. Quella nave capovolta era il Rodi. La disperazione entrò in molte famiglie, spazzando via tutte le gioie del prossimo Santo Natale.
Dieci uomini si trovavano a bordo nel momento del naufragio: Agostino Di Felice, Domenico Miarelli, Giovanni Liberati, Ivo Mengoni, Marcello Ciarrocchi, Silvano Falaschetti, Giovanni Palumbo, Francesco Pignati, Antonio Alessandrini e Alteo Palestini.
Accorremmo a casa di zia Amalia perché sapevamo che due suoi figli, Giovanni e Mario Liberati, erano imbarcati su quella nave. Urla di disperazione venivano da più abitazioni; nella nostra città le parentele tra le famiglie dei marinai sono molto ampie. Venne ad aprire la porta proprio Mario il quale tra i singhiozzi ci disse che lui era tornato col treno proprio per volere del fratello ed aveva lasciato il posto al rag.Ivo Mengoni, amministratore del Rodi. Non narro in che stato di disperazione trovammo tutti i familiari, compresa la fidanzata di Giovanni, che ansiosamente lo aspettava per stabilire il da farsi per il matrimonio, già fissato per l’anno entrante. Zia abbracciandomi mi strillo: “Riportatimi il mio Giovannino, voglio andare a pregare sulla sua tomba”. Era il desiderio di tutti, me lo espresse anche la madre di Alteo, carissimo amico fin da quando chierichetti ci ritrovavamo nella chiesa della Madonna della Marina.
Nonostante il desiderio da tutti espresso di fare presto per recuperare i naufraghi che sicuramente erano stati sorpresi dal rovesciamento dell’imbarcazione, per alcuni giorni nulla si fece, complici anche le feste natalizie, suscitando l’indignazione generale. Furono bloccate la ferrovia e la strada adriatica per dare un segnale forte alle Autorità. Di questo molti hanno scritto, voglio solo aggiungere alcuni episodi di cui sono stato testimone.
In attesa di un intervento ci fu detto che le correnti avevano trasportato il relitto verso sud e si era fermato davanti al litorale di Pescara. Partii in macchina con alcuni familiari per parlare con la Capitaneria della città abruzzese ed esortarla ad intervenire. Ci dissero che stavano arrivando i Sub di La Spezia e con loro avrebbero deciso il da farsi. Restammo lì tutto il giorno e ritornammo i giorni successivi. Facemmo amicizia con i Sub i quali si mostrarono molto disponibili alle nostre richieste. Ben presto ci fecero capire che lo scafo continuava ad imbarcare sabbia ed era impossibile entrarvi per ispezionarlo, occorreva il “pontone della Micoperi” che però era impegnato in altre operazioni. Ci tenemmo in contatto con i dimostranti della nostra città, esortandoli a tener duro fino a quando le Autorità non si fossero decise a inviare i soccorsi. Chiedemmo di farci avere a Pescara una grande rete da sistemare sotto il relitto per evitare il rischio di perdere qualche naufrago nel trasporto verso, il già deciso, porto di Ortona. Giunta la rete i Sub tentarono quest’operazione, cercarono in tutti i modi di imbracare la nave, smisero solo quando uno di loro stava rischiando la vita. Da questo momento al ritrovamento dei cadaveri ad Ortona è storia scritta.
Giungemmo alla città abruzzese la mattina del primo di gennaio quando i cadaveri ritrovati erano stati portati nella pescheria. Erano con me, mio fratello Giovanni, zio Nicola, fratello di Amalia, Pignati, il cognato di Alteo e l’infermiere dell’ospedale Dante Pulcini con tutto l’occorrente per la pulizia dei cadaveri. La delusione fu grande quando ci dissero che solo quattro dei dieci imbarcati erano stati ritrovati. Nel racconto dei soccorritori cogliemmo gli ultimi momenti di vita dei marinai: aprendo una porticina avevano trovato un cadavere diritto che sembrò andare loro incontro, altri due che avevano cercato di aiutarsi in un abbraccio. Non faccio nomi per non riaprire vecchie ferite.
Ora si trattava di sistemare i quattro cadaveri e metter loro i vestiti che le famiglie ci avevano affidati. Dante chiese il mio aiuto, mi disse cosa dovevo fare. La nafta e la sabbia avevano reso irriconoscibili i loro volti che riapparvero nelle loro sembianze sotto l’azione dei diluenti che Dante mi passava. Mi commossi in particolare all’apparire del volto di Giovannino (cogge, questo era il nostro saluto) e di Alteo (lu rescette, per soprannome); con Dante iniziai a pregare, implorando la misericordia di Dio e l’aiuto della Madonna della Marina.
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