SAN BENEDETTO DEL TRONTO – È uscito da poco più di un mese il libro “101 domande da porre a tuo figlio. Per stimolare ogni giorno una riflessione costruttiva”, edito da Bonomi Editore e disponibile su Amazon in formato cartaceo. Abbiamo incontrato l’autrice, la Dott.ssa Cristiana Aprile, sambenedettese, laureata in Psicologia presso l’Università di Bologna, in cui ha seguìto un particolare corso di laurea specialistica che le ha permesso di studiare e preparare la tesi viaggiando tra Spagna e Stati Uniti e conoscendo così studenti e professori provenienti da altre parti del mondo. Dopo le prime esperienze lavorative all’estero (tra Francia e Inghilterra), è tornata in Italia e si è iscritta alla Scuola di Specializzazione quadriennale in Psicoterapia Cognitivo e Cognitivo-Comportamentale. Da allora svolge la sua professione di terapeuta sia in libera professione sia come dipendente presso un centro ambulatoriale di riabilitazione privato. Si occupa principalmente di bambini, adolescenti e genitori.
Quando e come le è venuta l’idea di scrivere questo libro?
“L’idea di scrivere questo libro è nata dall’esperienza concreta e quotidiana con i genitori e i bambini che incontro in ambulatorio. I bambini sono sempre più disabituati a parlare e comunicare: mancano di capacità di rielaborazione e lettura critica degli eventi; spesso non riescono ad esprimere con fiducia il proprio mondo interiore. I genitori, dal canto loro, non sanno come e cosa chiedere loro per avviare conversazioni, conoscerli ed aiutarli. Scelgono le domande “sbagliate” o i momenti della giornata meno idonei. Inoltre troppo spesso si vorrebbe comunicare davvero solo quando sorge un problema o quando i figli diventano pre-adolescenti. L’allenamento a una comunicazione aperta e spontanea, invece, deve iniziare fin da subito. Ecco dunque l’idea di scrivere qualcosa di estremamente semplice e concreto da cui trarre spunto, che stimoli a ricavarsi fin da subito uno spazio all’interno della propria giornata per raccontarsi al proprio figlio e invitarlo a fare altrettanto.”
A chi è rivolto?
“Il libro è rivolto in primis ai genitori. Ma anche a nonni, insegnanti, educatori e chiunque si occupi di bambini e voglia instaurare con loro una relazione comunicativa.”
Nel suo libro afferma l’importanza di parlare con i figli sin da piccoli. Tuttavia la fase che va dalla nascita fino ai 3 anni è quella meno interattiva. Qual è dunque la finalità di una comunicazione fatta in questa fascia di età?
“È vero, è la fase meno interattiva da un punto di vista verbale; tuttavia è quella più importante durante la quale getteremo le basi delle abitudini del bambino, anche relazionali e comunicative. Solo se lo abitueremo fin da subito ad ascoltarci, raccontarsi, rielaborare con noi, avremo probabilità che lo farà anche da grande. Troppo spesso pretendiamo che i nostri figli ormai grandicelli ci parlino e ci raccontino senza aver lavorato su queste competenze prima!”
Man mano che l’età del bambino cresce, dai 3 ai 6 anni, le domande si fanno più numerose. Come possiamo stabilire una comunicazione efficace, evitando di fare un interrogatorio?
“Questo è un punto molto importante. Infatti, se i bambini percepiscono che una domanda gli viene posta per indagare, conoscere, controllare si ritirano o danno risposte casuali ‘per farci contenti’. È importante che il genitore goda di quei minuti di scambio col proprio figlio, senza avere in mente l’obiettivo di indagare. L’obiettivo deve essere raccontarsi, porsi come ascoltatore attento e non giudicante e ringraziare il proprio figlio per quel tempo. Se io non giudicherò ciò che il bimbo mi dice, va da sé che il piccolo non avvertirà quel momento come un interrogatorio, bensì come uno spazio di incontro e confronto.”
Oltre i 6 anni, non vengono stabilite delle fasce di età. Perché? E come possiamo capire quando sia il momento giusto per affrontare un determinato argomento?
“Dai 6 anni in poi non ho voluto suddividere ulteriormente l’età in nuove fasce per due motivi: ogni bambino è diverso ed ogni genitore è diverso. Per quanto riguarda i bambini, vi sono notevoli differenze in termini di attenzione sostenuta, motivazione, capacità di rielaborazione e ragionamento che vanno tenute in considerazione. Quindi ci sono bimbi di 10 anni a cui potrei porre le stesse domande che porrei ad altri di 6, e viceversa. Ogni genitore calibrerà domande, contenuti e vocaboli in base al proprio bambino. Il mio libro è una piccola guida che ambisce a dare spunti di riflessione, non un manuale da seguire alla lettera! Anche per quanto riguarda i genitori, va detto che non sono tutti uguali: c’è chi si sentirà in grado di affrontare determinati argomenti e chi no. Il momento giusto è esattamente quando se la sente il genitore. Spesso ci chiediamo quando siano pronti i nostri figli, ma questo è sbagliato: dobbiamo sentircela noi. Se ci sentiremo a nostro agio, saremo in grado di affrontare serenamente qualsiasi contenuto.”
Se, a seguito di una domanda che poniamo, ci viene fornita una risposta che non ci piace e riteniamo quindi di dover intervenire, come possiamo esplicare la nostra funzione educativa (magari correttiva) senza far passare e quindi pesare il giudizio?
“Il momento di scambio e confronto, che nel mio libro suggerisco di ricavarsi col proprio figlio, non ha un obiettivo informativo, tanto meno investigativo o correttivo. L’obiettivo di quei minuti (anche pochi) è creare nel tempo un terreno di incontro in cui ascoltarsi e raccontarsi con fiducia, consapevoli di essere accettati e mai giudicati. Quindi, se per esempio il nostro bambino ci dice che ciò che lo fa arrabbiare è quando non vince a un gioco e aggiunge che in quei casi spaccherebbe tutto e tutti, asteniamoci dal rimproverarlo. Se riteniamo di voler o dover in qualche modo intervenire, facciamolo chiedendogli per es.’Come ti senti quando perdi?’, ‘Spaccare tutto ti aiuta a vincere?’, ‘Cosa potresti fare di diverso?’, … Guidiamolo verso una riflessione costruttiva, insomma. Senza giudicarlo!”
In questo periodo molti giovani adolescenti mostrano segni di disagio, come ansia, scontrosità, insonnia, dovuti al prolungato isolamento a cui sono costretti da quasi un anno. Qual è la domanda giusta da porre loro per farli aprire ed aiutarli a stare meglio?
“In linea generale il dono più prezioso che possiamo fare ai nostri figli è abituarli a tollerare anche le fasi meno piacevoli della loro vita e della loro quotidianità, con la consapevolezza che esse sono passeggere e sopportabili. Mai, come in questo periodo, abbiamo fatto i conti col fatto che l’esistenza sia caratterizzata anche da frustrazioni e angosce. Ciò che può aiutarli, indubbiamente, è sapere che non sono soli e che noi siamo al loro fianco, nel bene e nel male, sia per gioire sia per soffrire. Il mio libro mira a trasmettere l’importanza di crescere figli in grado di auto-analizzarsi, conoscere sé stessi, rielaborare il proprio vissuto ed esprimerlo con fiducia; questo periodo di ritiro forzato può essere speso in tal senso. Possiamo aiutare i più grandi con domande tipo: ‘Alla luce di un periodo così difficile e tenuto conto dei limiti imposti, cosa ti aiuterebbe a stare un po meglio?’, ‘Cosa ti manca di più?’, ‘Cosa non ti manca affatto e perché?’, ‘Cosa vorrai cambiare della quotidianità che avevi prima non appena torneremo alla normalità?’, ‘C’è qualcuno che, seppur a distanza, ti è stato vicino in questo periodo?’, ‘C’è qualcuno che pensavi ti sarebbe stato vicino e invece non lo ha fatto?’, ecc. Per i bambini più piccoli, le abitudini e la routine, prevedibili e costanti, sono fonte di fiducia e sicurezza emotiva. Averle perse da un giorno all’altro li ha confusi e gettati nell’incertezza. È molto importante, quindi, ricrearle, seppur diverse e meno appaganti. Un altro aspetto legato al benessere psicofisico dei nostri figli è determinato da come noi genitori abbiamo vissuto e continuiamo a vivere la pandemia. È necessario comunicare con estrema sincerità ma senza gettarli nello sconforto, spiegando loro che questa fase è triste e difficile, ma finirà; che abbiamo degli strumenti di contrasto e che c’è chi sta lavorando per trovare una cura che possa aiutarci; che siamo addolorati e stanchi insomma, ma anche carichi di speranza.”
Quante e quali conseguenze la pandemia arrecherà sulla nostra psiche e su quella dei nostri figli?
“Di certo questa pandemia ha portato con sé un drammatico peggioramento dello stato di salute di coloro che erano fragili già prima: penso soprattutto a chi soffriva di disturbi d’ansia, depressione, dipendenze. E purtroppo sono già numerose anche le nuove diagnosi in tal senso. Ma l’isolamento, la paura del contagio, l’esperienza diretta col lutto hanno creato uno stato di malessere generale in tutti; non vederne la fine e non poter progettare il futuro tende ad angosciarci e ciò che normalmente è la risorsa più preziosa (condividere con l’Altro) ci viene negata per ovvi motivi. Tutti questi aspetti si stanno ormai cronicizzando, iniziando a pesare anche sui più giovani. Penso ai miei piccoli pazienti che già prima della pandemia soffrivano di disturbi legati all’ansia. Da una parte la reclusione forzata ha posto una distanza dagli altri e dalle richieste “sociali” che causavano loro stress. Contemporaneamente, però, la mancanza di esposizione e allenamento ha peggiorato il disturbo, creando un intenso malessere al momento di reintrodursi in presenza nei vari contesti di vita. Per non parlare, infine, del tempo trascorso dai ragazzini davanti ai videogames: una vera e propria dipendenza in tempi di lockdown!”
Cosa si augura per il nuovo anno e quale messaggio vuole dare ai nostri lettori?
“Mi e ci auguro tempo di qualità da investire in ciò che di più prezioso abbiamo e che questa pandemia ci ha temporaneamente tolto: le relazioni umane. Rigorosamente off-line! Ricordiamoci che nulla nella vita è permanente; questo angosciante periodo avrà una fine. Coraggio!”
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