Quella che è forse l’ultima opera di Sandro Botticelli, risalente al 1501, sembra la prima, anzi, uno studio quasi infantile, preparatorio al grande balzo di uno dei protagonisti della stagione del Magnifico a Firenze.La Natività Mistica, conservata alla National Gallery di Londra, ribalta alcune delle conquiste prospettiche e volumetriche da Giotto in poi:non c’è rispetto della prospettiva, anzi, c’è una evidente disarmonia dei volumi. La Madonna è più grande degli angeli che dovrebbero essere in primo piano e il simbolismo prende il sopravvento sulla mìmesis (la capacità di rappresentare la realtà, così come essa appare ai nostri occhi) del Rinascimento.
Le conquiste della tecnica pittorica vengono sconvolte da un artista che di quel Rinascimento era stato un autentico protagonista, con le sue Veneri, le Primavere, le Madonne, veri e propri manifesti, ancora oggi, di una stagione per alcuni ineguagliata. Senza dimenticare scrittori come Poliziano, Boiardo, Ariosto, lo stesso Magnifico, solo per fare pochi nomi.
Perché Alessandro Filipepi detto Botticelli è tornato indietro? Probabilmente perché c’era stato il breve ma intenso episodio di Savonarola, che tuonava contro il lusso, lo spreco, la lussuria, l’esibizione, la mollezza: vale a dire, nel bene e nel male, ciò che era parte integrante della stagione medicea. E del Rinascimento stesso.
Perché il Natale predicato dal frate domenicano significava un ritorno alla povertà e alla semplicità di quasi mille e cinquecento anni prima.Rappresentava il tentativo utopico di fare della Firenze della Rinascenza (che significava commesse pittoriche e, quindi, i soldi del potere) una nuova Nazareth, un luogo in cui passato e futuro si incontrassero e proclamassero la “scandalosa” novità in un Dio nato in esilio in una mangiatoia, per strada.
Tutto questo aveva colpito la fervida immaginazione di un artista che andava spesso a sentire le prediche apocalittiche del visionario domenicano, che condannavano esattamente tutto ciò di cui l’artista viveva: la proprietà, i soldi, la fama, il lusso, la corte, l’ozio.
E allora ecco il ritorno all’icona,
a quell’immobilità che Giotto e i suoi seguaci avevano abbandonato per rappresentare i volumi dei corpi, le distanze, la prospettiva, mettendo in risalto ciò che poi i grandi teorici del ritorno all’icona sacra, Pavel Florenskij e Pavel Evdokimov, hanno considerato rappresentazione dell’inganno dei sensi e allontanamento dal simbolismo del sacro. E, si guardi bene, i due studiosi ortodossi sono vissuti nel secolo passato, non nel Quattrocento, come, del resto, quel Tolstoj, morto come un vagabondo in una stazione ferroviaria nel rigido novembre russo del 1910, che aveva a sua volta condannato gran parte della letteratura e dell’arte come sterili lussi mentre il popolo moriva letteralmente di fame.