La pandemia Covid-19 sembra aver sollecitato l’Ue e i suoi Paesi membri a cercare risposte comuni. Basterebbe citare la sospensione delle regole del Patto di stabilità e crescita, le diverse iniziative adottate da Bei e Bce, e poi Sure, Mes, il riorientamento dei fondi strutturali… Quindi sono arrivati l’accordo sul bilancio pluriennale e Next Generation Eu. Ne parliamo con Piero Graglia, docente di Storia dell’integrazione europea all’Università degli Studi di Milano, esperto di politiche comunitarie e autore di diversi saggi sull’argomento.
Professore, come giudica questo “nuovo” processo politico? Potrebbe costituire un passo in avanti per l’integrazione comunitaria?
Sicuramente nulla sarà più come prima. La necessità di rispondere coralmente di fronte ha una sfida di tale portata, ha permesso all’Unione europea – dopo una iniziale confusione – di affinare armi e strumenti per affrontare la crisi. Mi sembra che la risposta europea sia stata efficace per portata, vastità e incisività; ciò che semmai è emerso con evidenza è il ruolo di freno che i governi degli Stati membri hanno continuato a svolgere, adattandosi con difficoltà alla necessità di una cooperazione approfondita e nello stesso tempo richiedendo a gran voce interventi dell’Unione per i quali non ci sono competenze chiare e definite a livello europeo. Come al solito, nel processo di integrazione europea, è stata la lezione dei fatti a orientare e articolare l’evoluzione dei rapporti tra l’Unione e gli Stati membri: da questa crisi l’Unione emergerà molto più in grado di intervenire e di superare la naturale tendenza degli Stati membri di muoversi ognuno per conto proprio. La grande novità delle emissioni di debito sovrano da parte dell’Unione e le nuove risorse proprie che serviranno a finanziare nuove politiche sono acquisizioni che non si perderanno col ritorno alla “normalità”.
L’Italia sta definendo i progetti da finanziare con Next Generation Eu. Un cammino irto di ostacoli, compresi i traballamenti della maggioranza di governo. A suo avviso, l’annunciata destinazione dei fondi del Piano di ripresa è orientata alla trasformazione ecologica e digitale? E, soprattutto, porterà risultati per uscire dalla crisi economica e sociale in atto?
Ho letto, come molti altri colleghi e operatori dell’informazione, le prime bozze del piano del governo. La quantità di risorse che l’Unione ha mobilitato per aiutare i Paesi travolti da questa crisi sanitaria è impressionante; nello stesso tempo essere uno dei Paesi maggiormente destinatario degli aiuti non è di per sé un fatto positivo: significa che i problemi italiani sono più rilevanti ed evidenti rispetto alla situazione di altri Stati. Usare questi soldi – composti sia da assegnazioni da spendere sulla base di progetti tutti da preparare, sia da prestiti sempre utilizzabili sulla base di progetti – è fondamentale per il nostro Paese. Tuttavia il piano del governo non è formalmente un piano con una chiara progettualità: si enunciano principi e impegni ma è ancora tutto molto nebuloso, forse proprio perché una cultura della progettazione economica e sociale in Italia non ha mai attecchito veramente.Questo piano richiede una visione di medio periodo che è difficile da ottenere da una classe politica che preferisce quasi sempre vivere alla giornata e rispondere colpo su colpo ai problemi invece che rappresentarli all’interno di uno scenario articolato e complesso.Se Atene piange, Sparta non ride: le critiche di parte della maggioranza al programma del governo si perdono in inutili polemiche senza, di nuovo, avere una progettualità evidente. Lei, inoltre, mi chiede della transizione ecologica e digitale…
Esatto.
Direi che viene citata ripetutamente, ma mi resta il dubbio se questa attenzione sia frutto del chiaro indirizzo in questo senso enunciato sia dalla Commissione europea sia dalla presidenza di turno del Consiglio (la Germania, nel secondo semestre 2020 – ndr) oppure se vi sia la chiara coscienza di ciò che significa per il nostro tessuto economico e sociale. Una transizione e una trasformazione di questo tipo vanno a colpire tutti, senza distinzione, i settori produttivi; richiedono a tutti interventi e progetti dei quali, al momento, non vedo proprio traccia.
Mentre l’Europa era chiamata a far fronte al Covid, Bruxelles ha dovuto negoziare sul Brexit. Ora il Regno Unito è un “Paese terzo”: quali i pro e i contro?
La Gran Bretagna ha vissuto l’adesione alla Comunità economica europea come un fattore strumentale; spesso si rimprovera l’Italia di aver considerato il processo di integrazione europea come un “vincolo esterno”, un mezzo per modernizzare il Paese. Bene, credo che questo valga al quadrato per quanto riguarda il Regno Unito, che negli anni ‘60 si affacciò al processo di integrazione europea in condizioni critiche dal punto di vista economico e commerciale.Scegliendo di uscire dall’Unione europea, dopo aver goduto dei vantaggi del mercato comune e poi unico, in un certo senso il Regno Unito ha sciolto una ambiguità storica:dovrà affrontare molti problemi, perché cessa di essere parte della prima organizzazione economica globale al mondo, e nello stesso tempo dovrà confrontarsi con le sue ambizioni di media potenza che vive nel sogno di un retaggio imperiale non più esistente. Nessuno può dire come andrà a finire: se ci si basa sull’esperienza storica ciò che è permesso alla Svizzera, ad Andorra e al Liechtenstein non è lecito per un paese di 60 milioni di abitanti che non ha la forza per essere “globale” ma neppure può limitarsi a fare il paradiso fiscale. Per l’Unione europea dal mio punto di vista cambia proprio poco nei rapporti commerciali: chi ha maggiori possibilità di sostituire importazioni ed esportazioni è sempre la parte più forte: e l’Ue questa possibilità ce l’ha vista la quantità e qualità dei suoi membri. Il Regno Unito non ce l’ha. Se esistesse la categoria della pedagogia politica internazionale io direi che l’Unione europea, salvaguardando i suoi legittimi interessi – che sono legittimi tanto quelli del Regno Unito – dovrebbe comunque aiutare il Regno Unito a capire l’errore commesso, che è un errore oggettivo. Se poi i britannici volessero rientrare nell’Ue, così come nel 1961 si presentarono per un’anticamera durata 12 anni con il cappello in mano, dovranno di nuovo fare un bagno di umiltà e confrontarsi con i loro fantasmi di ex grande potenza.
Quest’anno uscirà dalla scena politica Angela Merkel. Quale eredità politica lascia?
La rimpiangeremo, credo. Angela Merkel apparteneva alla prima generazione della politica tedesca che non viveva il ricordo eroico degli inizi del processo di integrazione, ed è anche il primo cancelliere tedesco a non aver condiviso sin dalle origini un europeismo “nativo”, essendo cresciuta nella Repubblica Democratica Tedesca. Tuttavia ha immediatamente adottato il paradigma classico della politica estera tedesca: l’Europa e l’integrazione europea sono i fattori che legittimano la Germania postbellica come un attore pari agli altri Stati europei.Il suo europeismo non è opportunistico, come spesso è stato quello italiano; è un europeismo con venature federaliste interiorizzato sulla base di un’esperienza storica dolorosa ed estremamente istruttiva.La sua eredità mi sembra quella di un Paese maturo ormai immune da rigurgiti nazionalistici, quelli che in Italia invece fanno sentire pesantemente la loro presenza. Io credo che chiunque sarà il suo successore manterrà queste coordinate di fondo. Alla fine mi sembra che l’atteggiamento tedesco di adesione convinta al processo di integrazione europea, non solo commerciale ma anche politica e sociale, sia la migliore garanzia per la persistenza di questo straordinario percorso di integrazione.
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