Quando un posto di grande responsabilità, politica o economica o accademica, o sociale, viene per la prima volta occupato da una donna fa sempre titolo: la prima donna presidente della Commissione europea (Ursula von der Leyen), la prima donna alla guida della Banca centrale europea (Christine Lagarde), in questi giorni la prima donna alla guida della borsa di Parigi (Delphine d’Amarzit). Ed è la prima volta, in queste settimane, che così tante donne contemporaneamente sono alla guida di governi di Paesi europei: l’estone Kaja Kallas, la finlandese Sanna Marin, la danese Mette Frederiksen, la norvegese Erna Solberg, la lituana Ingrida Simonyte, l’islandese Katrín Jakobsdóttir, la serba Ana Brnabic e, ovviamente, la tedesca Angela Merkel. Non mancano inoltre le donne elette nel ruolo di presidente della repubblica: in Slovacchia Zuzana Čaputová, avvocato e attivista; in Grecia la giudice Katerina Sakellaropoulou; Maia Sandu in Moldavia, Salomé Zourabichvili in Georgia.
Maggiori ostacoli. L’orgoglio di veder arrivare una donna così in alto è grande, come se fosse un successo personale. Ogni donna che arriva da qualche parte è una donna che ha superato più ostacoli di un uomo e che manda un messaggio di incoraggiamento a tutte le altre. E così il cielo dell’Europa è un po’ più rosa. Non è una questione del colore in sé. È semplicemente “un passo verso la normalità”: questa la lettura che, in una intervista al Sir, dà di questo “cielo” Stephan Eisle, osservatore politico tedesco di lungo corso che nella sua carriera annovera anche di essere stato dal 1983 al 1987 estensore dei discorsi di Helmut Kohl. “Noi tedeschi siamo abituati da tempo alla guida di una donna”, commenta Eisle, e forse nei Paesi nord-europei è un dato più scontato rispetto al contesto culturale, mentre in altri Paesi del sud o dell’est dell’Europa è un’evoluzione più difficile. Va da sé, che nemmeno al Nord nessuna di quelle donne è leader politica “perché è donna, ma perché è competente”.
Ciascuna con la sua storia. Ognuna delle donne che oggi guidano i governi di sette Paesi europei e alcune istituzioni europee, ha competenze diverse, modi differenti di assumere decisioni, formazione, appartenenza politica ed età diverse: Sanna Marin è nata nel 1984, mentre Angela Merkel è del 1954; la danese Mette Frederiksen è una socialdemocratica e guida un governo di centro-sinistra, Erna Solberg in Norvegia è leader del partito conservatore e guida una coalizione di destra. Ingrida Simonyte è un’economista per formazione, come Ana Brnabic; Kaja Kallas una giurista. E a differenziarle, oltre agli studi, l’età e il partito di appartenenza, ci sono l’indole personale e la storia di ciascuna di loro. Secondo Eisle, l’appartenenza politica è il tratto in assoluto più determinante, anche rispetto al sesso. Un esempio tutto tedesco: la politica europea di Angela Merkel non è stata diversa da quella di Helmut Kohl e non sarà diversa da chi della Cdu, uomo o donna che sia, dovesse prendere il posto della Merkel al cancellierato.
Nomi illustri. Comunque sia, la foto di gruppo dei summit dei capi di Stato e di governo sarà più variopinta anche perché ci sono più donne: è vero, dice Eisle, “ma le donne hanno sempre avuto un ruolo importante nella costruzione dell’Europa. Pensiamo a Simon Weil”, presidente del Parlamento europeo dal 1979 al 1982. Già: ma l’elenco finisce in fretta. Certo, di donne al tavolo del Consiglio europeo negli anni se ne sono già sedute altre: da Margareth Thatcher a Theresa May, dalla lituana Dalia Grybauskaitė ovviamente alla stessa Merkel, che da 17 anni è sulla scena europea, ma anche questo elenco non è lunghissimo
Essere al primo posto. L’elemento di positività, secondo Eisle, sta nel fatto che una maggiore presenza femminile in ruoli di potere è “più rappresentativo della composizione sociale”. È vero che “le donne hanno un modo diverso di guardare alle cose rispetto agli uomini”, come per altro c’è differenza nella prospettiva di un giovane o di un anziano, o tra persone che provengono da contesti geografici e culturali diversi. Però una sostanziale differenza tra il modello maschile e quello femminile è l’integrazione nella società, quella che i tedeschi chiamano “la sozialisierung”, cioè “il modo in cui si viene socializzati”: per le donne passa in misura più marcata attraverso la famiglia. Gli uomini si smarcano più in fretta e più facilmente dai carichi famigliari.
Una seconda e più sottile differenza, aggiunge Eisle, sta nel fatto che le donne hanno meno nel loro immaginario collettivo quello “dell’essere al primo posto” e hanno dovuto e devono lottare di più di quanto faccia un uomo per raggiungere posizioni apicali. “Storicamente non è consuetudine” quindi è più difficile. Ed è un dato, per lo meno guardando al contesto italiano, dove siamo molto meno abituati ad avere donne in ruoli di responsabilità, che la durezza (e a volte la cattiveria) con cui le si giudica è maggiore. Ma a piccoli passi di “prima donna a capo di qualcosa” va avanti questa salutare e necessaria riconfigurazione del cielo, della politica, dell’economia e in generale della cultura.
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