Di Silvia Rossetti
Servono delle provocazioni per uscire dalla staticità nella quale sembriamo confinati, occorrono argomenti forti e luoghi dove tornare a mettere alla prova noi stessi. Certo il momento storico e le condizioni che viviamo non ci aiutano a trovare la maniera di accendere nuovi stimoli educativi e avviare percorsi, che possano fornire ai nostri ragazzi gli strumenti per affrontare il cambiamento senza restarne schiacciati, soprattutto emotivamente.
I ragazzi lo stanno chiedendo, sanno che glielo dobbiamo. Hanno protestato per tornare a scuola, chiedono spazi per ricominciare a confrontarsi tra di loro e con se stessi.
Sarebbe interessante fare il punto sulle “parole chiave” utilizzate in questi mesi in campo educativo, e non solo.
Tra le prime, le più urgenti, troviamo la “speranza”. Abbiamo sperato molto: nel vaccino, nel cambiamento, nel futuro. La speranza è un ottimo carburante, ma serve una meta, soprattutto serve un progetto.
“Distanziamento” è stata la parola più gettonata e al contempo invisa. Distanziarci ci ha salvati e dannati al tempo stesso. Ci siamo misurati coi nostri rispettivi confini e all’interno di questi abbiamo fatto esperienza del nostro personalissimo concetto di solitudine. Ci siamo sentiti “respinti” e al tempo stesso “protetti” dal cerchio “buono” della prevenzione; ora fatichiamo a uscirne.
“Comunicazione”, ecco un’altra parola. Quanto abbiamo comunicato in questi mesi? Molto, moltissimo. Abbiamo ascoltato tv, socialmedia, ci siamo videochiamati. Abbiamo fatto la DaD. Siamo stati travolti da notizie salvifiche, ma anche da fakenews e allarmismi.
“Barriere” ce ne sono state tante e molte restano in piedi. Prima fra tutte, il bavaglio che siamo costretti a indossare ogni giorno, quello stesso bavaglio che ci salva la vita e che dietro al banco monoposto o alla cattedra ci costringe a urlare le nostre risposte, perché l’interlocutore fatica a sentirci.
Abbiamo mezzo volto a disposizione per interagire con gli altri, quando potremo finalmente deporre le mascherine scopriremo nuovi lineamenti sui visi dei compagni di classe, o magari dei nuovi professori.
Queste le parole dei mesi passati. E ora? Di quali parole abbiamo bisogno ora?
In realtà si percepisce un certo “fermento”. Serpeggia fra giovani e meno giovani e cerca la sua strada. Quello che maggiormente manca è ancora il “contatto”, lo “stare assieme”. I centri di aggregazione giovanile cercano di rispondere a questa esigenza. Nel mondo dell’associazionismo si sono costituite delle reti dove i giovani possano far confluire il proprio “sentire” comune e dove possa tornare ad animarsi quello spirito di fraternità “rivoluzionario”, che in momenti trascorsi della nostra storia ha sollevato popoli e comunità.
Fratellanza è una parola evangelica, ma è anche uno dei motori della rivoluzione francese. La fratellanza, afferma lo scrittore Javier Cercas sulle pagine de L’Espresso della scorsa settimana, “non è una considerazione morale, è un dato incontrovertibile”. Non è neppure un assunto “buonista”. Anche Caino e Abele erano fratelli. Il dato, in realtà, ci richiama al senso di responsabilità comune e ci orienta a costruire qualcosa di cui far parte, con i suoi limiti certo, ma con quel respiro alto che soltanto la coralità riesce a dare all’essere umano.
“Fratelli tutti” ha scritto lo scorso autunno in una lettera enciclica Papa Bergoglio. All’interno delle aule la fraternità diventa un progetto di ricostruzione del tessuto sociale stesso, a partire dalle radici, dai giovani arbusti. Deve farsi strada nei percorsi della didattica e incontra grosse opportunità, ad esempio, nella nuova formula dell’insegnamento dell’educazione civica. “Sentirsi fratelli” vuol dire molte cose: significa praticare l’empatia, rispecchiarsi, avere l’opportunità di misurarsi con una solitudine sana e non disperata, soprattutto avere la certezza di riuscire a farcela.
E’ la parola chiave che aprirà le porte del nostro imminente futuro.
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