Fonte: Vatican News
IRAQ – L’Iraq, con un territorio che si incunea tra Medio Oriente e Asia, si snoda in una regione legata ad antiche pagine di storia. La Mesopotamia, culla di civiltà antiche, è stata abitata da popoli, come sumeri, babilonesi e assiri, che hanno lasciato tracce indelebili. Qui è stato stilato il Codice di Hammurabi, una fra le più antiche raccolte di leggi scritte. In questa terra è nata la fede di Abramo e hanno predicato i primi profeti. Qui l’Islam ha conosciuto la prima drammatica divisione tra sunniti e sciiti. La storia recente dell’Iraq, dove è in programma il viaggio apostolico di Papa Francesco dal 5 all’8 marzo prossimi, è scossa anche da eventi e drammatici conflitti. A partire dal XX secolo sono state le ricchezze petrolifere il principale vettore economico del Paese del Golfo. Ma proprio queste ricchezze sono state anche l’origine, e a volte la causa, di guerre e sofferenze. La prima guerra del Golfo è una di queste dolorose pagine della storia irachena.
E’ l’estate del 1990. Sono passati due anni dalla fine del sanguinoso conflitto tra Iraq e Iran, costato la vita complessivamente, secondo alcune fonti, ad almeno un milione di persone. La guerra, durata otto anni, ha causato enormi danni alle economie di entrambi i Paesi. La popolazione irachena è stremata e la disoccupazione raggiunge livelli insostenibili. Nel 1990 l’Iraq, che per finanziare la guerra contro l’Iran ha contratto un debito con altri Paesi del Golfo per oltre 70 miliardi di dollari, è sull’orlo della bancarotta. Tra i Paesi creditori che esigono la restituzione delle somme erogate, c’è anche un piccolo Stato, il Kuwait. Per l’allora presidente iracheno, Saddam Hussein, quel debito deve invece essere cancellato. Sostiene che l’Iraq ha combattuto contro l’Iran in difesa di tutta la nazione araba e dei Paesi del Golfo. Saddam Hussein non solo si rifiuta di estinguere il debito, ma accusa il Kuwait di aver estratto illegalmente, durante il periodo del conflitto tra Iran e Iraq, petrolio iracheno da alcuni pozzi al confine. Le accuse vengono formalizzate in una lettera inviata alla Lega Araba il 15 luglio del 1990. Pochi giorni dopo, si passa dalle parole alle azioni militari. Il 2 agosto del 1990, i carri armati iracheni invadono Kuwait City. Ha inizio così la prima guerra del Golfo.
Il 2 agosto 1990 le truppe irachene attraversano il confine e rapidamente occupano il Kuwait, un piccolo Paese con ricche riserve petrolifere. Dopo l’invasione, l’emiro del Kuwait chiede l’intervento degli Stati Uniti. L’allora presidente iracheno, Saddam Hussein, proclama l’annessione del Kuwait che dichiara anche 19.ma provincia del Paese. L’annessione non viene riconosciuta dalla comunità internazionale. Il 6 agosto il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite vota una prima risoluzione per l’embargo contro l’Iraq. Il 29 novembre il Consiglio di sicurezza dell’Onu approva la risoluzione numero 678, con cui autorizza, a partire dal 15 gennaio 1991, l’uso di tutti i mezzi necessari per costringere l’Iraq a ritirare le proprie truppe dal Kuwait. Scaduto l’ultimatum, una coalizione guidata dagli Stati Uniti avvia le operazioni militari. È la notte tra il 16 e il 17 gennaio del 1991. Si apre la più imponente operazione militare internazionale dalla Seconda Guerra Mondiale. La campagna aerea, cominciata in quella notte, rende inutilizzabili cruciali infrastrutture irachene. Il 23 febbraio ha inizio l’operazione di terra per la liberazione del Kuwait. Pochi giorni dopo si vivono le ultime fasi del conflitto. Il 27 febbraio le truppe irachene cominciano a lasciare il Kuwait. E il 28 febbraio 1991 l’allora presidente americano, George Bush, proclama il cessate il fuoco.
La prima guerra del Golfo è il primo conflitto in diretta televisiva, con una copertura proposta soprattutto dall’emittente americana Cnn. In tutto il mondo vengono trasmesse per la prima volta le immagini di una guerra in tempo reale. Le prime ad essere mostrate sono quelle, subito dopo l’invasione delle truppe irachene, di quasi mezzo milione di profughi kuwaitiani che attraversavano il confine con l’Arabia Saudita. Dopo l’intervento delle forze statunitensi supportate dalle forze della coalizione, arrivano in tutto il mondo, a partire dalla notte del 16 gennaio 1991, immagini che alternano bagliori verdi della contraerea a lampi più chiari, quelli delle scie dei missili lanciati su Baghdad. In diretta si sentono i rumori delle esplosioni delle bombe. Anche la televisione irachena mostra immagini legate al conflitto.
“Dobbiamo interrogarci ancora oggi sugli effetti di quelle immagini che arrivavano nelle case, spesso ad ora di cena e su come colpivano soprattutto i bambini”, afferma al microfono di Andrea De Angelis il professor Mario Morcellini, direttore dell’Alta Scuola di Comunicazione Unitelma Sapienza. “Non mi stupisco del fatto che le testate più attente – prosegue – abbiano deciso di dedicare dello spazio a questo anniversario, perché va sempre ricordata quell’orrenda materia che è la guerra”. Il 20 gennaio viene mostrato in particolare un gruppo di piloti prigionieri, fra cui il capitano italiano Maurizio Cocciolone, poi rilasciato al termine del conflitto insieme con il maggiore Gianmarco Bellini. Tra le immagini più note del conflitto, ci sono quelle dei pozzi petroliferi dati alle fiamme dalle forze armante irachene durante la ritirata dal Kuwait per cercare di contrastare le forze alleate. E poi ci sono quelle della superstrada che porta dalla capitale del Kuwait verso l’Iraq in direzione di Bassora. Ribattezzata autostrada della morte, è stata percorsa dalle truppe irachene, in fuga dal Kuwait, attaccate dalle forze aeree statunitensi. Istantanee e riprese che si riferiscono a quell’attacco e che ritraggono colonne di veicoli bombardati lungo la strada.
È il 28 febbraio del 1991. È il giorno in cui terminano le operazione militari. L’Iraq accetta le risoluzioni dell’Onu. L’allora presidente statunitense, George H. W. Bush, si rivolge alla Nazione. Dichiara che il Kuwait è stato liberato e che sono stati raggiunti gli obiettivi delle forze alleate. La guerra, aggiunge il capo di Stato americano, è “alle nostre spalle”. Ma il bilancio è pesante. Si stima che la prima guerra del Golfo sia costata la vita ad oltre 5 mila civili, ad almeno 30 mila soldati iracheni e a circa 500 militari della coalizione guidata dagli Usa. Il governo iracheno non collassa e il regime di Saddam Hussein sopravvive per altri 12 anni. Il conflitto, terminato il 28 febbraio del 1991, lascia inoltre aperte le ferite che porteranno ad altre tragiche pagine, come quelle legate alla seconda guerra del Golfo, iniziata il 20 marzo del 2003.
Nei giorni che precedono l’intervento della coalizione guidata dagli Stati Uniti, Papa Giovanni Paolo II lancia numerosi appelli per la pace nel Golfo Persico. Il 12 gennaio del 1991, nel discorso rivolto ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, afferma che “la pace è ancora possibile”: “L’ora è più che mai quella del dialogo, del negoziato, della preminenza della legge internazionale”. Il 15 gennaio scrive due messaggi indirizzati ai presidenti di Iraq e Stati Uniti. Rivolgendosi al capo di Stato iracheno sottolinea che “nessun problema internazionale può essere adeguatamente e degnamente risolto col ricorso alle armi”. “La guerra oltre a causare molte vittime – aggiunge – crea situazioni di grave ingiustizia che, a loro volta, costituiscono una forte tentazione di ulteriore ricorso alla violenza”. Nel messaggio al presidente statunitense, il Pontefice chiede di non risparmiare sforzi per “evitare decisioni che sarebbero irreversibili e porterebbero sofferenze a migliaia di famiglie di suoi concittadini e a tante popolazioni del Medio Oriente”. Le parole del Papa non vengono ascoltate. Prevale invece la voce delle armi. E, poche ore dopo l’inizio dell’operazione “Desert Storm” (Tempesta nel deserto), Papa Wojtyła lancia il 17 gennaio del 1991 un nuovo accorato appello per la pace nel Golfo Persico. L’occasione è un un incontro svoltosi con i collaboratori del vicariato di Roma.
Il popolo iracheno chiede la pace. Durante il Sinodo dei giovani, tenutosi in Vaticano nel 2018, un membro della Chiesa caldea, Safa Al Abbia, ha lanciato questo accorato appello:
“Mi chiamo Safa e vengo dall’Iraq, da Baghdad. Sono il rappresentante della Chiesa cattolica irachena e ho un messaggio da trasmettere a tutti i giovani del mondo: in Iraq ci sono molti giovani, giovani straordinari, che vivono saldi nella fede, nonostante tutte le tristi e miserabili condizioni nelle quali sono costretti a vivere sotto ogni aspetto. Eppure restano forti nella fede, anche se hanno bisogno delle vostre preghiere, del vostro sostegno. E, allo stesso tempo, anche noi pregheremo per voi, perché Dio benedica voi e i vostri Paesi. Non dimenticateci, continuate a pregare. E forse la prossima volta ci sarà più di un unico rappresentante che verrà e condividerà la propria storia, perché abbiamo tanti problemi: le persecuzioni, l’immigrazione… La sola cosa che vogliono è vivere in condizioni dignitose nel loro Paese”.
Nella regione a ridosso dei fiumi Tigri ed Eufrate, una terra lacerata dalla guerra, si snoda il viaggio di Papa Francesco in programma dal 5 all’8 marzo prossimi. Un itinerario che si articola in Iraq tra Najaf, Nassiriya, Piana di Ur, Baghdad, Erbil, Mosul e Qaraqosh per ricordare anche i valori della pace e della fratellanza. “In molte parti del mondo – scrive il Pontefice nell’enciclica Fratelli tutti – occorrono percorsi di pace che conducano a rimarginare le ferite, c’è bisogno di artigiani di pace disposti ad avviare processi di guarigione e di rinnovato incontro con ingegno e audacia”. Il processo di pace – aggiunge il Papa – è “un impegno che dura nel tempo. È un lavoro paziente di ricerca della verità e della giustizia, che onora la memoria delle vittime e che apre, passo dopo passo, a una speranza comune, più forte della vendetta”. La pace, si legge ancora nell’enciclica Fratelli tutti, “non è solo assenza di guerra, ma l’impegno instancabile di riconoscere, garantire e ricostruire concretamente la dignità, spesso dimenticata o ignorata, dei nostri fratelli, perché possano sentirsi protagonisti del destino della propria Nazione”. Questo è il cammino che sono chiamati a percorrere l’Iraq e tutti i Paesi feriti dalla guerra.
Sono diverse le pellicole cinematografiche ed i romanzi che hanno tratto ispirazione dalla prima guerra del Golfo. Come ricorda Silvia Giovanrosa nella sua scheda, tra i più significativi possiamo ricordare il film “Bravo Two Zero”, tratto dal saggio omonimo ed autobiografico di Andy McNub. L’autore è un ex Marine dello Special Air Service Inglese e comandante della pattuglia Bravo Two Zero. La missione affidatagli è quella di sabotare le linee telefoniche irachene e scoprire la postazione dei lanciamissili. La missione sarà un fallimento: alcuni soldati moriranno, altri risulteranno dispersi e McNub verrà catturato e torturato. Il film, come un documentario, descrive, con minuzia di particolari, l’orrore della guerra. Un altro romanzo autobiografico, di cui è stata prodotta la versione cinematografica, è “Jarhead”. È la storia di un giovane soldato partito per il Kuwait, che si ritrova a vivere la guerra senza combatterla. Lui e i suoi compagni sono spesso impiegati in pesanti addestramenti nel deserto. Torneranno a casa senza mai aver sparate un colpo. Ma hanno potuto riflettere su ciò che hanno lasciato indietro e che, a causa della guerra, è andato definitivamente perduto.
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