Fonte Vatican News
Un carcere “aperto” e “leggero”, senza armi, né agenti di polizia penitenziaria. La sicurezza? Garantita dai volontari e dai detenuti stessi. Il metodo non è nuovo e proviene dalle Associazioni di protezione e assistenza ai condannati (APAC) del Brasile e si tratta di un sistema carcerario, entrato a far parte del’impianto istituzionale nazionale e di cui si è parlato nel corso di un seminario dal tema “Carcere, Covid-19 e Comunità” organizzato dalla Comunità Papa Giovanni XXIII.
“Su 1000 persone che escono dal carcere, 750 tornano a delinquere e a commettere reati più gravi di quelli per cui sono entrati. Inoltre sappiamo che il 70% di coloro che varcano la soglia della galera già ci sono stati” sostiene Giorgio Pieri, autore del libro “Carcere, l’alternativa è possibile” (Sempre Editore), presentato nel corso del forum. “Tutto questo comporta enormi spese e non solo in termini economici. Dobbiamo uscire dalla logica della giustizia vendicativa e pensare a strutture in grado di educare”.
A tal proposito Pieri racconta l’esperienza della CEC (acronimo di Comunità Educante con i Carcerati) proposta dall’Associazione fondata da Don Oreste Benzi, sul modello delle Apac. “Abbiamo visto come funzione in Brasile e i risultati ottenuti” riprende, sottolineando che “Chi è inserito non torna a delinquere e il protagonismo degli stessi condannati e della società civile sono in grado di far precipitare il tasso di recidiva, di abbassare i costi, oltre a garantire ai recuperandi condizioni di vita dignitose e un più semplice reinserimento in società”.
Punto fondamentale del metodo Cec è il riconoscimento da parte della persona che ha commesso il reato di aver sbagliato e di volere ricominciare. Tra i punti cardine ci sono: partecipazione alla comunità, lavoro, assistenza giuridica, assistenza sanitaria, valorizzazione umana, merito, spiritualità e vicinanza alla famiglia. “Don Oreste era solito ripetere che l’uomo non è il suo errore e se effettivamente si pente non deve scontare neanche un giorno di carcere” riprende Pieri. “Le nostre strutture accolgono persone senza fissa dimora, stranieri prive di alcun riferimento, gente che, una volta approdata qui, non è più un problema ma una risorsa per la società. La nostra è una università del perdono”.
Il Covid, poi, ha rappresentato una emergenza nell’emergenza. Mentre le varianti del coronavirus stanno mettendo a dura prova il piano di contenimento e di cura della pandemia, oltre 53 mila persone vivono rinchiuse nelle carceri italiane in condizioni di promiscuità: un rischio enorme per loro, per i familiari, per il personale che lavora negli istituti penitenziari. “Per affrontare l’emergenza, lo stato è disposto a finanziare l’accoglienza in comunità. E’ una bellissima notizia. Purtroppo pur avendo molte associazioni dato la propria disponibilità, diverse comunità restano vuote; sono stati occupati meno di un quarto dei posti disponibili” indica Pieri, sottolineando che “Il male non si combatte con il male, ma con il bene. Anche in un momento di crisi come quello che stiamo vivendo i nostri centri possono fare la differenza”.
L’esperienza della Comunità ha dimostrato, dunque, che è possibile ricomporre fratture sociali, responsabilizzare i colpevoli e far sì che questo strumento rappresenti un’occasione di responsabilizzazione ed educazione e che tale misura volta alla deflazione delle carceri va incontro alla funzione di garantire condizioni umane per i detenuti, che comunque versano ancora in condizioni molto difficili. Ma soprattutto risulta più efficace per il recupero di coloro che hanno commesso reati e che mediante un sistema di giustizia riparativa hanno maggiori possibilità di non delinquere oltre. Occasione che in carcere verrebbe senz’altro meno.
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