Antonella Palermo – Vatican News
L’Iraq è nelle mani dei giovani. La povertà, i traumi delle guerre, la disoccupazione, le famiglie separate a seguito delle migrazioni forzate incidono sull’estrema precarietà di questo popolo. I giovani iracheni desiderano educazione, orientamento al lavoro, formazione professionale. Non hanno paura, vogliono mettersi in gioco ma hanno bisogno di conferme, di opportunità per incanalare le energie nella strada della pace, della condivisione, del dialogo che rifugge gli estremismi.
Dahlia Khay Azeez è una quarantenne di Baghdad. Una laurea in Informatica, studi teologici dai padri Redentoristi. Poi il trasferimento in Belgio, il conseguimento della Licenza all’università di KuLeuven e il dottorato al Pontificio Istituto Orientale, a Roma, dove è iscritta al quarto anno. Ci ricorda che, appena arrivata qui, l’Istituto celebrava il centenario della fondazione e in quella circostanza il Papa si recò in visita lì. Lei era a pochi passi da lui ma non ebbe modo di salutarlo, di parlargli, solo vederlo mentre piantava un albero nel giardino dell’università, in segno di pace. La raggiungiamo ora nella sua città natale, dove da alcuni mesi ha fatto rientro per stare accanto alla famiglia, quattro fratelli, in un frangente così preoccupante a causa della pandemia. Anche adesso che il Pontefice è in procinto di atterrare nel suo Paese, non potrà partecipare agli incontri: troppo difficile spostarsi per lei. Ma a Dahlia è sufficiente sapere che il Papa, il primo in terra irachena, arriva a portare un messaggio di fraternità, soprattutto per i giovani.
R. – Tutti sono molto molto felici per questa visita di pace. I musulmani lo sono perché è la prima volta che una persona importante viene da noi. Per noi il valore dell’ospitalità è grandissimo, è sacro. Come Abramo ha accolto i tre angeli nella sua casa, da noi la tradizione dell’ospitalità è radicata nella nostra anima. E’ una cosa meravigliosa per noi, siamo contenti. Speriamo che tutto andrà bene. Sarà tutto molto semplice ma qualcosa di bello e buono. Purtroppo, a causa del Covid-19, non possiamo fare tutto quello che vorremmo. Le persone che possono partecipare agli incontri sono state scelte, necessariamente, da alcune commissioni. Tutti si stanno impegnando perché vada tutto a buon fine. Seguo in tv i documentari, trasmettono programmi su Ur, si parla anche dei precedenti viaggi del Papa per farlo conoscere di più. Ecco, ora viene da noi, proprio lui viene da noi.
A Ur dei Caldei è previsto un incontro interreligioso aperto a tutti per sottolineare il valore della fratellanza universale….
R. – Io credo che senza il virus si sarebbe potuto fare di più, ma pazienza. La cosa che vorrei dire al Papa, quando scenderà dal volo a Baghdad, è questa: prima di baciare questa terra, Santità, pensi che su ogni centimetro è caduto il sangue di un’anima innocente. Lui camminerà non solo su un Paese che si chiama Iraq, ma su una storia molto intrisa di dolore. Non abbiamo avuto mai pace. La sua venuta qui è come quando arriva una colomba che porta notizie buone. Per noi l’Iraq non è solo un luogo dove ci sono siti con delle antichità, è un Paese che vive sul sangue delle genti. Anche pochi giorni fa sono morte altre persone a Ur. Sono morti tanti giovani per la libertà. Io credo e spero che sarà una visita di benedizione e che porterà la fraternità.
Il Papa porterà lo spirito dell’ultima enciclica Fratelli tutti…
R. – Speriamo… Noi abbiamo vissuto tante guerre e vogliamo cambiare questa sequenza di guerre. Noi siamo un popolo che ama la vita. Speriamo che ci saranno sempre più persone che lavorano per la pace.
I giovani come cercano di fronteggiare la crisi sociale, economica del Paese?
R. – Noi cerchiamo di sopravvivere. Ci aggrappiamo alla vita. Sono tanti quelli che sono riusciti a studiare e a ottenere titoli di studio ma poi sono costretti a fare lavori che non c’entrano nulla con la loro formazione e i loro sacrifici, lo fanno pur di sopravvivere. Per noi la vita è importante. Io spero che questi giovani trovino opportunità, che abbiano migliori chances. Spero che Dio ascolterà le nostre preghiere. Quando verrà il Papa vedrà i loro volti, vedrà che ci sono sorrisi sulla loro faccia. Ma non c’è persona, famiglia – tra i cristiani, tra i musulmani, i curdi… – non c’è nessuno che non abbia sofferto. Avere un’opportunità di essere contenti, lavorare insieme, questo speriamo. Ora basta, dobbiamo vivere insieme e preparare il Paese per le generazioni che verranno dopo.
Perché molti sono affascinati dall’Isis?
R. – In tutto il mondo c’è questa cosa. Qui alcuni sono mossi dalla povertà. Sono usati e manipolati per fragilità psicologiche. Noi vogliamo la pace. Io voglio dire che da noi ci sono due parole per indicare la pace: ܫܠܡܐ Šlāmā (pace) e ܫܝܢܐ Šaynā (tranquillità interiore). La prima indica l’assenza di guerre, la seconda la pace interiore. Quella davvero importante, da cui deriva l’altra, è la seconda. Io spero che questi giovani ci pensino tanto prima di essere tentati di distruggere se stessi e gli altri.
Un tema che hai a cuore è quello che definisci la ‘teologia dei rifugiati’…
R. – Nel 1991 anche io sono stata una rifugiata. Siamo scappati da Baghdad nel nord del Paese, siamo finiti alla frontiera tra Turchia e Iran. C’erano tanti cristiani e curdi con noi. Siamo rimasti a lungo in un villaggio turco. Era un momento difficilissimo per me. Avevo dieci anni. Chiedevo dove è Dio. Dopo siamo rientrati a Baghdad. Nel 2014 quando l’Isis è entrato a Mosul, io mi sono confrontata con altri cristiani nella mia città. Anche loro si facevano la stessa domanda, non perché non credono in Dio, ma per dire: “dove sei? ti vorrei accanto”. In fondo, è la stessa domanda di Gesù sulla croce. Io ho vissuto quattro guerre. Ora posso dire che comunque la speranza c’è sempre. Non so come spiegare, sempre dico ai miei amici a Roma: “Io sento la presenza di Dio molto forte in questo Paese”. Forse lui l’ha messa dentro i nostri cuori, ci ha messo un sogno dentro. La forza di andare avanti c’è ma speriamo che ci sarà anche l’opportunità di realizzarla.
Cosa di più brutto ricordi della tua vita finora e cosa di più bello?
R. – La guerra è sempre brutta. Ero piccola e avevo paura di andare a scuola. Pensavo sempre che qualcuno mi avrebbe attaccato. Una volta è stata presa di mira una scuola, perciò ero stata traumatizzata… meno male che mia madre è sempre stata molto forte e ci ha sempre fatto andare a scuola. Vedere il tuo Paese caduto, che devi ricominciare da zero… questo è davvero brutto. Anche nel 1991… non dimenticherò mai le sirene. E’ così forte quel suono di allarme. Tanta paura. Quando attaccavano i posti… Qualche volta quando guardiamo in tv dei documentari storici io non voglio guardare, non voglio tornare al passato. Voglio guardare al futuro. Ogni volta che ho studiato e sono riuscita nei miei studi per me è stato meraviglioso. Mi dico: ‘hai fatto bene i tuoi esami’ e sono contenta. E poi, essere insieme è importante. Vedere persone che hanno paura, che sono deboli, che non hanno cibo: aiutarle ti fa sentire veramente bene, felice.