“Speriamo sia l’ultimo sforzo, ma c’è bisogno di insistere. Tendiamo a percepire la vita come una successione immediata di eventi, ad essere istantanei sul modello dei social. Ma la lotta contro il male è tutt’altro che rapida. Contro ogni forma di male”. Il card. Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna, parla a un anno dal primo lockdown e all’indomani dell’entrata in vigore del nuovo Dpcm che colora di rosso e di arancione (Sardegna esclusa) tutta la nazione.
Dopo un anno, quasi tutta Italia è costretta a richiudersi in casa. Bologna è già in rosso dal 4 marzo. Cosa sta succedendo?
Sono preoccupato. Bologna sta per finire la seconda settimana di zona rossa e non si vedono ancora i benefici. Il numero di ricoveri non cala, anche se l’età media si è abbassata. C’è molta stanchezza e sofferenza tra le persone.
Insieme alla Lombardia, al Veneto e alla Campania, in questa nuova fase della pandemia l’Emilia Romagna è tra le Regioni più colpite. Perché?
Dobbiamo uscire dall’idea falsamente ottimista della lotta contro il virus. Può servire per incoraggiare o per rafforzare le motivazioni nel vincere.
Ma dobbiamo essere realistici: la lotta contro il virus richiede grande sforzo.
Se non c’è una consapevolezza personale che si trasformi in comportamenti adeguati, nulla potrà cambiare. Non possiamo aspettare una soluzione magica che ci consenta di ricominciare tutto come prima. Il virus è temibile, difficile da sconfiggere, richiede una dose di responsabilità ora e nel tempo a venire. Speriamo sia l’ultimo sforzo, ma c’è bisogno di insistere. Tendiamo a percepire la vita come una successione immediata di eventi, ad essere istantanei sul modello dei social. Ma la lotta contro il male è tutt’altro che rapida. Contro ogni forma di male.
Quanto è cambiata Bologna?
Tantissimo. Nessuno era abituato a una città deserta, con pochi studenti, con orari che impediscono gli incontri. La grande sfida è saper trarre dalla pandemia le risorse che saranno necessarie per la ricostruzione. Il senso di responsabilità reciproca e la solidarietà che serviranno, ad esempio, a sostenere le persone che stanno già perdendo il lavoro e che lo perderanno.
Abbiamo tanti segnali importanti di persone che sentono la spinta a una rinnovata solidarietà. Se il virus porta all’isolamento e all’egoismo, affrontare insieme questa pandemia ci fa riscoprire il senso del Vangelo e della condivisione.
Lei ha parlato di ricostruzione. Usciremo da una guerra?
Le conseguenze della pandemia lo dimostreranno. Ma se guardiamo al numero di persone morte fino a oggi, ci rendiamo conto della tragedia che stiamo vivendo. Abbiamo ormai superato le 100 mila persone.
È una guerra, non ci sono dubbi.
A Nembro, piccolo comune della provincia di Bergamo, sono morte più persone di Covid-19 che durante le due Guerre mondiali. La pandemia e la paura ci vogliono impedire di scorgere l’orizzonte. Ma noi dobbiamo uscire da questa prova con la consapevolezza di dover preparare un futuro migliore a chi verrà dopo.
Lei ha sperimentato la malattia: che momento è stato?
Per fortuna non ho avuto sintomi importanti, né io né tutti i sacerdoti che vivevano nella Casa del Clero. Per alcuni, la fatica più grande è stata quella di rimanere da soli in una stanza piccola per tutto il tempo della quarantena. Ma siamo stati protetti e fortunati.
E la Chiesa di Bologna?
La Chiesa deve aiutare responsabilmente a combattere il virus e a contrastare le conseguenze della pandemia. Ogni pandemia, infatti, produce tante altre pandemie: la perdita di lavoro, l’impoverimento, l’isolamento, le difficoltà relazionali. Tutti problemi che non termineranno con la vittoria sul virus. Per questo la Chiesa deve essere una madre attenta ai suoi figli e aiutare a difendere la vita e le persone.
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