Silvia Rossetti
Li chiamano Neet, un acronimo che sta per Not in Education, Employment or Training. Sono quei giovani che non studiano, non lavorano e non fanno formazione. Una schiera nutrita e in forte crescita, così dicono i dati Istat 2020, soprattutto dopo la brusca frenata che il Covid19 ha inferto all’economia mondiale. Il tasso di disoccupazione giovanile, infatti, nell’ultimo trimestre 2020 ha sfiorato il 30%, posizionando l’Italia tra gli ultimi Paesi in classifica nell’area euro.
I Neet sono “figli” della crisi economico-finanziaria, ma anche la conseguenza di una cattiva gestione dei percorsi formativi ed educativi. I giovani che entrano nel limbo dei Neet non hanno avuto probabilmente una adeguata possibilità di orientare correttamente le proprie scelte scolastiche, di approfondire e sviluppare le proprie attitudini e di fare esperienze autentiche rispetto ai propri desideri.
In Italia, nella fascia d’età compresa tra i 15 e i 24 anni, l’incremento più significativo dei Neet riguarda regioni come Marche (+26,3%), Lombardia (+25,9%), Molise (+21,4%) e Liguria (+20,3%), mentre l’incremento a livello nazionale è del 5%. Da registrare il calo registrato nel Mezzogiorno (-2,9%), con la Sardegna che mostra il decremento più forte (-12,8%), seguita da Friuli Venezia Giulia (-8,9%), Calabria (-8,6%) e Abruzzo (-5,6%).
A livello nazionale, invece, nel 2020 i giovani Neet sono cresciuti rispetto al 2019 di 53mila unità sempre nella fascia d’età 15-24 (superando abbondantemente il milione). Nei dati, inoltre, emerge un sostanziale divario di genere: la condizione pare essere più diffusa tra le ragazze che, ancora una volta, testimoniano la difficoltà di essere “donna” nell’ambito del lavoro e dei percorsi di specializzazioni rivolti alla professione.
La questione dei Neet evidenzia una importante avaria di sistema che mette in crisi le famiglie, che vedono sempre più i figli permanere in casa senza apparente prospettiva di impiego futuro o attività. Soprattutto, però, il fenomeno crea una forte ipoteca sul domani della nostra società. Paghiamo lo scotto del peccato originale del relativismo culturale e del disfattismo sociale degli ultimi anni. La criticità nasce dalla falsa premessa che l’educazione sia stata considerata per anni (e continua a esserlo) un fatto privato all’interno dei nuclei familiari e che non sia da inquadrare in un sistema progettuale e strutturato. Ai nostri giovani sono mancati centri di aggregazione (oltre a quelli istituzionali), efficaci politiche mirate a valorizzare risorse e capacità dei singoli individui, sollecitazioni e stimoli soprattutto nei territori periferici e degradati.
La famiglia, poi, spesso non è in grado di sostenere il peso e la responsabilità del percorso educativo, per mancanza di consapevolezza o per la pressione economica e lavorativa a cui è sottoposta. Per non parlare delle difficoltà relative a quest’ultimo anno.
Parlando di Neet, poi, un tema rilevante è la presenza di mismatching fra le competenze a cui forma la scuola e quelle richieste dal mercato del lavoro, ma anche – forse soprattutto – che si aggiunge alla diffusa demotivazione, depressione, sensazione di non appartenenza sociale.
Per essere efficaci occorre che le diverse istituzioni lavorino insieme al fine di stimolare nel Paese una cultura di alleanza tra generi, generazioni e parti sociali, che si realizzi come alleanza educativa. L’empowerment giovanile, che anche a livello europeo ci viene sollecitato, si può realizzare soltanto attraverso una progettualità integrata, che guardi in prospettiva e che si fondi su buone sinergie sociali.
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