persDIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del monastero Santa Speranza di San Benedetto del Tronto.

«Io sono il buon pastore», ci dice Gesù nel Vangelo di questa domenica. Buono non perché affettuoso, paziente, gentile. «Io sono il buon pastore», letteralmente io sono il pastore bello, e capiamo subito che la bellezza di cui si parla non consiste in un qualcosa che riguarda l’aspetto esteriore ma che il fascino e la forza di attrazione del pastore vengono dal suo coraggio e dalla sua generosità. Un pastore vero, autentico, forte, combattivo, che ha il coraggio per lottare e difendere il suo gregge dai lupi.

Una bellezza che, in questo senso, è tutta contenuta in un gesto ripetuto ben cinque volte oggi nella pagina evangelica: il gesto dell’offrire, del donare.

Io offro, ci dice il Signore, non domando ma dono. Non pretendo, regalo. Cosa? Io offro la vita.

Un Dio che non chiede per sé ma offre; che non prende nulla ma dona tutto; che non toglie vita ma dà la sua vita anche a coloro che gliela tolgono.

L’amore del pastore bello per le sue pecore provoca il suo esporre, deporre la vita per la loro salvezza. Infatti, non solo il pastore spende la vita stando in mezzo alle pecore, guidando il gregge, conducendolo in pascoli dove gli sia possibile sfamarsi; ma può anche accadere che la minaccia per la vita del gregge diventi minaccia per la vita stessa del pastore. E’ questo il momento in cui il pastore bello si rivela, disposto a mettere a rischio la propria vita per le pecore. Questa solidarietà, questo amore sono possibili però se il pastore non solo non è un mercenario, ma se conosce le sue pecore di una conoscenza unica, particolare, una conoscenza che lo porta a discernere e riconoscere l’identità di ciascuna di esse, una conoscenza generata dalla prossimità e dall’assidua custodia del gregge.

Ma cosa significa conoscere l’altro? Significa vederlo, chiamarlo per nome, essergli da guida, fargli attraversare la porta dei pascoli della vita, proteggerlo, varcare mari e monti per fare della pecora perduta la pecora ritrovata fino a dargli la propria stessa vita. Questo è il conoscere di Gesù.

Essere pane, luce, vita alle molteplici fame, oscurità e morti di ogni uomo, essere via d’uscita e porta aperta alle sue prigioni, ai suoi orizzonti chiusi. Pastore dice tutto questo, la sconfinata compassione di Dio in Gesù per noi pecore senza radici, senza orientamenti, senza approdi, cercate una ad una e poste da Gesù sulle proprie spalle, patria degli smarriti ritrovati.

«In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati»: sono le parole di Pietro, che leggiamo nella prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli. Parole rivolte ai capi e agli anziani del popolo che lo stanno interrogando sulla guarigione di uno storpio da lui compiuta. Pietro ribadisce che la forza che ha fatto rialzare e guarire lo storpio viene solo da Cristo, viene da quella pietra che, scartata dai costruttori, è diventata pietra d’angolo. Il pastore bello è solo Lui, è solo Cristo, non un mercenario, non un salariato ma il pastore unito a noi sue pecore da un legame personale e di amore. Tutto si gioca sul piano della relazione, non del ruolo, né della funzione, sul piano dell’amore, non del dovere.

Allora cantiamo con il salmista e rendiamo grazie al Signore perché è buono, perché è bello, perché il suo amore è per sempre.

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