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Generazione Z, nativi digitali o… “quelli della pappa scodellata”

Silvia Rossetti

Generazione Z, nativi digitali o… “quelli della pappa scodellata”. Ecco tre definizioni per i nostri adolescenti. L’ultima volutamente provocatoria, ma frequentemente citata nei momenti di esasperazione da noi adulti “di riferimento”, soprattutto quando vediamo i nostri giovani passivi e privi di iniziative di fronte alla realtà.
In effetti le ultime generazioni, troppo sfaccettate e complicate da poter essere condensate in un’unica definizione, portano in sé aspetti molto contraddittori. Da un lato ci troviamo di fronte a giovani svegli, capaci di fare cose che noi alla loro età noi non eravamo in grado neppure di sognare, informati su molti fronti e sempre “accesi”. Sotto altri aspetti, invece, paiono quasi dormienti, imbambolati, poco avvezzi a prendere iniziative, ma soprattutto a ingegnarsi per risolvere problemi.
Come mai?
La risposta più banale e immediata che viene in mente è che una società complessa e paradossale, non possa che generare figli complicati e contraddittori. Ma è una spiegazione che non può essere soddisfacente e neppure utile a chi vorrebbe “raddrizzare un po’ il tiro”.
Le spiegazioni articolate ed esaustive arrivano, invece, se con calma tentiamo di ripercorrere gli stili educativi adottati negli ultimi vent’anni e anche i cambiamenti sociali che li hanno condizionati. I nostri adolescenti sono stati generati da quella società che spesso ha confuso l’amore con il senso di colpa, i ruoli genitoriali con quelli dei figli, la libertà col permissivismo, l’informazione con la confusione, l’educazione con il personalismo, la scuola con il parcheggio, le regole con le opinioni. Soprattutto abbiamo scambiato la tutela con l’assistenzialismo, impedendo ai nostri figli di emanciparsi sotto diversi aspetti, in particolare nella capacità di affrontare e risolvere i problemi che la quotidianità sottopone senza tregua.
Li abbiamo psicologizzati e, pur soffermandoci spesso sul valore del fallimento, nei fatti abbiamo continuato a sbandierare modelli vincenti e a promuovere la competizione a tutti i costi, anche quando non ce ne sarebbe stato bisogno. Messaggi confusi, quindi, e comportamenti incongruenti.
Non c’è intenzione di mettere alla berlina o di processare nessuno, viviamo tempi ingannevoli che producono scenari in rapidissimo mutamento. Difficile assumere posizioni stabili e coerenti, a prescindere dal nostro ruolo all’interno della società.
Certo, bisognerebbe, correre ai ripari e cercare di fornire ai nostri ragazzi segnali più chiari, per lo meno rispetto alle loro possibilità future.
La scuola nell’ultimo anno ha navigato a vista con la DaD, si è misurata con l’emergenza e l’ha affrontata come meglio poteva. Ma certo “formare” non vuol dire “informare”, passare contenuti attraverso uno schermo. Fare la caccia del gatto col topo per distinguere i “copioni” dai “secchioni”. Lambiccarsi per trovare impossibili strade alternative a percorsi pedagogici, che possono attuarsi soltanto in presenza e in “relazione”. Lavorare continuamente “al ritocco” degli indicatori della valutazione, perché non adeguati al quadro della situazione.
Inoltre, educare significa consentire il confronto con i pari, fare in modo che le criticità e gli eventuali scontri possano trasformarsi in arricchimento reciproco. Questa è la fetta più importante del lavoro formativo cui abbiamo dovuto rinunciare negli ultimi mesi.
Siamo incagliati nelle secche del nostro futuro, mentre a grandi passi si avvicinano gli esami di Stato per la scuola secondaria di primo e secondo grado. Ancora una volta ci troviamo a proporre un esame “mutilato”, senza prove scritte e con una forte riduzione di senso.
Che traccia lasceranno questi mesi nella formazione dei nostri giovani? Difficile prevederlo.
Nel frattempo tornano ad aprirsi le danze di fine anno e gli studenti tornano a misurarsi con la propria fragilità. Il “compito di realtà” è dietro l’angolo, sarà importante più che risolverlo, affrontarlo con coraggio.

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