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Mons. Giordano nunzio a Bruxelles: “Credo in una diplomazia della pace, dell’incontro, del dialogo”

Sarah Numico

Dopo sette anni passati in Venezuela, come nunzio apostolico, mons. Aldo Giordano torna all’Europa: la Santa Sede ha annunciato oggi la nomina del cuneese, classe 1954, a nunzio presso l’Unione europea a Bruxelles. Dall’Europa Giordano era partito nel 2014, lasciando Strasburgo e l’incarico di Osservatore permanente della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa. Prima ancora, di Europa s’era occupato negli anni tra il 1995 e il 2008, quando era stato segretario generale del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa (Ccee). Filosofo per formazione, dialogico per carattere, montanaro per passione, mons. Giordano è arrivato alla carriera diplomatica per pura obbedienza, strappato da un percorso dall’impronta più pastorale a cui però anche da nunzio è rimasto affezionato. Così gli impegni diplomatici e ufficiali, sia nella laica Strasburgo, che nel difficile Venezuela di Maduro, non gli hanno tolto la voglia e il tempo di incontrare e camminare con le persone che non hanno titoli particolari. I nunzi, chi conosce quel mondo lo sa, sono sempre misurati nelle loro parole, ma chi conosce mons. Giordano sa anche che non è solito sottrarsi alle domande. Il Sir lo ha raggiunto, appena saputa la notizia della nomina.

Mons. Giordano, si aspettava questa nomina?
Il Papa Francesco alcune volte mi aveva detto: “tu conosci bene l’Europa e noi ti abbiamo mandato in esilio in Venezuela, ma un giorno tornerai!”. Anche amici pensavano naturale un mio ritorno in Europa, ma io pensavo piuttosto all’Africa o all’Asia, dopo 7 anni di America Latina.

Che cosa suscita in lei questa novità?
La grande gioia di ritornare “a casa” e di poter riprendere il servizio al grande e complicato processo dell’unione del continente, ma anche il timore di ritrovarmi in un’Europa cambiata, considerando i ritmi attuali della storia. Il mio primo impegno sarà cercare di capire la nuova situazione, in punta di piedi.

Può fare a caldo un primo bilancio di questi sette anni in Venezuela?
Il popolo del Venezuela mi ha “rubato il cuore”, per il suo affetto, la sua passione per la vita, la musica, le danze, la religiosità, la vicinanza alla Chiesa e soprattutto per le sue sofferenze e le lacrime. Penso con commozione alle mie visite alle comunità degli indigeni nei villaggi degli Yanomami dell’Amazzonia, sulle palafitte dei Waraos del delta dell’Orinoco, davanti alle cascate di Canaima del territorio dei Pemoni. Sono testimone della lotta di questo popolo attraverso le grandi manifestazioni di protesta; ho partecipato a tentativi di dialoghi e trattative; ho seguito le campagne elettorali; ho constatato il gioco geopolitico mondiale che si consuma in queste terre. Molto bello il rapporto che ho sperimentato con la Chiesa di questo Paese, i suoi vescovi, i sacerdoti, i giovani, soprattutto durante le diverse visite che ho realizzato in tutte le diocesi.

Il Paese che lei lascia è in situazioni drammatiche, sul piano politico, economico, della tutela dei diritti e delle libertà, ora anche sanitario: quale messaggio vuole mandare al popolo che vive in questa situazione?
Soprattutto la crisi petrolifera e l’inflazione devastante hanno distrutto l’economia, annullando il valore della moneta locale. Il salario minimo mensile equivale a pochi dollari e il popolo soffre. D’altra parte, ho visto l’eroismo della solidarietà nelle parrocchie, nelle Caritas, nelle associazioni, nelle Ong, negli organismi internazionali, dove spesso sono i poveri che aiutano i poveri. La gente è riconoscente alla solidarietà mondiale e anche la Nunziatura è coinvolta in questa opera di solidarietà. Diverse volte ho pensato che il mio servizio più importante per questo Paese fosse quello alla fiducia e alla speranza che viene dalla fede nel Vangelo di Gesù Cristo. Il senso di abbandono, la stanchezza e la disperazione sono mali striscianti e molto pericolosi.

Ha un messaggio anche per i governanti del Venezuela?
Arrivato in Venezuela, il 3 febbraio 2014, ben presto ho percepito che il problema grave del Paese era la divisione e polarizzazione a livello sociale (ricchi e poveri) e ideologico (chavisti ed oppositori). Il 30 aprile scorso, il Santo Padre Francesco ha inviato un messaggio al popolo del Venezuela, in occasione della beatificazione del dottor José Gregorio Hernandez – medico e scienziato che ha dedicato la vita ai poveri, amatissimo in Venezuela – e che io ho avuto la grande gioia di presiedere: il Papa chiede di procedere con urgenza e responsabilità nel cammino della riconciliazione, dell’unità nazionale, della priorità del bene comune del popolo e della rinascita del Paese. Questo mi sembra il messaggio più importante per i governanti, ma anche per l’opposizione e i leader della società civile.

In questi anni ha mantenuto rapporti con l’Europa?
L’Europa ha un ruolo molto importante in Venezuela. Basti pensare alla numerosa presenza spagnola, italiana, portoghese, tedesca in questo Paese. Come decano del Corpo diplomatico ho tenuto rapporti di amicizia con i colleghi ambasciatori dell’Europa. La posizione dell’Europa è decisiva su ogni questione della vita del Paese, a livello economico, politico e culturale. L’ho guardata con gli occhi del Venezuela e dell’America Latina e ho cercato di capire con che sguardo l’Europa considerava il Venezuela.

Ora torna a frequentare luoghi, persone, istituzioni a lei ben note: c’è qualche sogno o progetto europeo che coltivava quando è partito e che ora potrà riprendere?
Dal 1995 al 2013 ho accompagnato la costruzione europea, attraverso l’opera del Ccee, della Commissione degli episcopati dell’Unione europea (Comece) e della Santa Sede. Ho collaborato con responsabili delle diverse chiese in Europa e ho partecipato a incontri tra musulmani e cristiani del continente, ho incontrato leader politici. Vorrei riprendere questi rapporti, perché credo in una diplomazia della pace, dell’incontro, del dialogo, dell’aprire processi, come ci insegna Papa Francesco.

La sua nomina coincide quasi perfettamente con l’avvio nell’Ue della Conferenza sul futuro dell’Europa, in un tempo drammatico per l’Europa e per il mondo: secondo lei che cosa è indispensabile e prioritario per l’avvenire della nostra Unione?
Sono convinto che la realtà dell’identità e delle radici dell’Europa resti decisiva, insieme a quella della relazione dell’Europa con il resto del mondo. Solo un’Europa con radici solide può avere una posizione significativa nella geopolitica mondiale, la capacità di un rapporto sano con le religioni, la possibilità di confrontarsi con l’immane problema delle migrazioni. Il virus ci sta drammaticamente dicendo che siamo tutti sulla stessa barca: o ci salviamo insieme o insieme cadiamo nel baratro. Permangono i sogni propri della nascita dell’Unione europea: contribuire alla pace, alla fraternità della famiglia umana; a un’economia che non lascia morire di fame; al rispetto per l’ambiente e la natura. Da non dimenticare che l’Europa ha una ricchezza culturale e artistica impressionante da offrire all’umanità.