Dalla camorra sanguinaria degli anni Ottanta a quella di oggi, dove si contano meno morti, ma sempre un cancro per la società. A preoccupare è anche l’escalation di episodi di violenza camorristica a Ponticelli, luogo da cui partì, su ordine di Raffaele Cutolo, il commando che assassinò, nel 1981, il vicedirettore del carcere di Poggioreale, Giuseppe Salvia. Questo fedele servitore dello Stato, a lungo dimenticato, è al centro del libro “La vendetta del boss. L’omicidio di Giuseppe Salvia” (Guida Editori) di Antonio Mattone, portavoce della Comunità di Sant’Egidio di Napoli e direttore dell’Ufficio di pastorale sociale e del lavoro della diocesi di Napoli.
Nei giorni scorsi l’arcivescovo di Napoli è andato a celebrare la messa a Ponticelli, un territorio particolarmente ferito da episodi di violenza camorristica: cosa sta succedendo?
Da alcune settimane Ponticelli sembra sotto assedio: esplosioni di bombe, raid, sparatorie.Un’escalation di violenza in un quartiere periferico dove alla crisi di tante aziende e fabbriche si aggiungono i devastanti effetti della pandemia che è andata ad aggravare una situazione già difficile.Qui una volta c’erano fiorenti fabbriche che oggi sono scomparse. Basta ricordare la clamorosa vicenda della Whirlpool, l’azienda americana che, nonostante sia in attivo, ha chiuso i battenti, lasciando per strada più di 300 famiglie oltre a quelle dei lavoratori dell’indotto.
Quali sono i motivi per i quali la situazione si sta nuovamente aggravando?
C’è un riposizionamento dei vari gruppi criminali, una galassia di famiglie camorriste che si combatte per avere la supremazia del territorio: mercato della droga, estorsioni a cui si sono aggiunte dispute sui soldi da versare per mantenere i detenuti. Alleanze ed equilibri che si rompono e ricompongono, che stanno dando vita ad una nuova stagione del terrore che non può più lasciare indifferenti e inerti.In questo contesto, l’arcivescovo Mimmo Battaglia ha celebrato la messa con i sacerdoti della zona, ha incoraggiato i fedeli a non rassegnarsi di fronte a chi ha scelto la violenza, ma ha avuto parole molto chiare verso le istituzioni: “Lo Stato non fa sentire la sua presenza solo con le forze dell’ordine, ma con lo sviluppo”.Ed è poi tornato nel quartiere per incontrare gli abitanti dei bipiani, delle costruzioni fatiscenti che il Comune vuole demolire, senza però dare un’alternativa abitativa a questa gente.
Da anni lei è impegnato, con la Comunità di Sant’Egidio, come volontario del carcere di Poggioreale e proprio al vice direttore di Poggioreale, Giuseppe Salvia, ucciso per ordine di Cutolo nel 1981, ha dedicato un libro. Perché è importante ricordare la sua figura?
Innanzitutto voglio ricordare che Salvia venne ucciso da un commando che proveniva proprio da Ponticelli, la batteria di fuoco più “efficiente” che Cutolo aveva a disposizione. La figura del vicedirettore, a lungo dimenticata, che ho voluto ricordare nel volume “La vendetta del boss. L’omicidio di Giuseppe Salvia”, ha una grande importanza. In una situazione così difficile come quella del carcere di Poggioreale degli anni ’80, dove la prepotenza dei boss alimentava la corruzione e nello stesso tempo consigliava di voltarsi dall’altra parte,
Salvia non si fece intimidire e continuò a svolgere il suo lavoro con abnegazione e rettitudine.
Un esempio di funzionario mite ma fermo che parla anche alle giovani generazioni di questo tempo.
Lei ha avuto anche l’occasione di intervistare Cutolo che in quell’occasione confessò di essere il mandante dell’omicidio. Come e quando è riuscito a fare quell’intervista?
Era il 22 luglio 2019 quando varcai la soglia del supercarcere di Parma per incontrare il boss di Ottaviano. La tragica vicenda del vicedirettore del carcere di Poggioreale, con un epilogo così crudele, mi fece nascere il desiderio di confrontarmi con colui che aveva ordinato l’assassinio. Poteva sembrare una richiesta velleitaria, ma l’ostinazione di voler incontrare Cutolo, per chiedergli se fosse stato lui ad ordinare l’omicidio, alla fine fu premiata. E dopo due anni di attesa e rifiuti, riuscii ad ottenere l’autorizzazione per parlargli.
Com’è cambiata la figura del camorrista negli ultimi anni?
Ai tempi della guerra di camorra tra Nco e Nuova famiglia i camorristi erano sicuramente più sanguinari. In quegli anni si contarono centinaia di morti ammazzati. Oggi esiste una camorra finanziaria e imprenditoriale, con complicità tra i colletti bianchi e imprese, come ha ricordato recentemente il procuratore Giovanni Melillo.Una borghesia camorrista che non appare o, forse, che si fa finta di non voler vedere. Accanto a questa crescono i giovani boss che per apparire utilizzano i social, da morti vengono celebrati con gli altarini e che per dimostrare la loro forza hanno bisogno di manifestazioni di terrore come le stese, mentre per i vecchi boss la sola presenza incuteva timore.Forme diverse di violenza ma la sostanza resta la stessa.
Quanto è importante presentare ai giovani, soprattutto in quartieri degradati e deprivati, modelli positivi?
È fondamentale non solo mostrare modelli positivi, ma cercare di dare prospettive e identità a questi giovani.
Tanti vedono nella violenza il solo modo di emergere e di sentirsi qualcuno. Mi ha colpito vedere la miseria a cui è ridotto Mario Incarnato, il killer di Giuseppe Salvia che ho incontrato due anni fa e la cui testimonianza è riportata nel mio libro. Far vedere ai giovani la fine che si fa dopo una onorata e promettente carriera criminale può smitizzare certi personaggi e ricondurre alla realtà tanti giovani attratti da queste figure considerate vincenti.
Ci sono state reazioni contrastanti all’ordinanza della Corte costituzionale riguardo all’ergastolo ostativo: cosa ne pensa?
Io credo che i benefici non possono essere concessi solo se si collabora. Bisogna valutare il comportamento caso per caso. Così, se qualche boss continua ad avere un ruolo di primo piano nella criminalità organizzata non gli si può lasciare campo libero. Tuttavia, non si può mai sfociare in comportamenti disumani.La nostra bussola resta sempre la Costituzione che all’articolo 27 recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Questo è bene non dimenticarlo mai.
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