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Madonna del Soccorso, intervista al Dott. Sfrappini, primario di Geriatria, da oggi in pensione

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Prosegue il nostro viaggio all’interno delle corsie ospedaliere per incontrare i primari di alcuni reparti dell’Ospedale Civile Madonna del Soccorso della nostra città. Oggi ospitiamo il Dott. Mario Sfrappini, Primario di Geriatria e Lungodegenza post acuzie. Dopo aver ottenuto la Laurea in Medicina e Chirurgia con lode presso l’Università degli Studi di Perugia nel 1980, ha conseguito con lode i Diplomi di Specialità in Endocrinologia presso la stessa Università, in Andrologia e in Geriatria presso l’Università degli Studi de L’Aquila. Ha poi proseguito la sua formazione seguendo ed acquisendo il master in Strategia e Gestione delle Organizzazioni a Rete in Sanità presso l’Università Politecnica delle Marche. Da cinque anni è primario di reparto e da due Direttore del Dipartimento Medico dell’Area Vasta 5. Ieri, 30 Giugno, è stato il suo ultimo giorno di lavoro.

Come mai, nonostante avesse la possibilità di proseguire ancora per altri quattro anni, ha scelto di terminare ora la sua esperienza professionale?
Ho ceduto al desiderio di esperire un’età della vita che è da molti anni oggetto del mio impegno professionale.

In tutti questi anni di attività come sono cambiati il ruolo dell’anziano all’interno della comunità e il modo con cui la società ci si relaziona?
La risposta è che è cambiata la composizione della comunità riferita ai gruppi di età e, con essa, il ruolo dell’anziano. Nel 1900, in Europa, la speranza di vita alla nascita non raggiungeva i 45 anni (43 per gli uomini, 46 per le donne), adesso siamo ad una media di 86 anni. I dati sulla popolazione della nostra provincia, ricavati dai due censimenti italiani del 2001 e 2011, documentano la riduzione della popolazione di età inferiore a 39 anni e l’incremento della popolazione di età superiore a 40 anni, quest’ultimo determinato in larga parte dall’incremento degli ultra ottantenni: -3,2% (0-14 anni), -11.1%. (15-39), +14,1 % (40-64), +2 % (65-79), + 58,2 % (80 e oltre). L’espansione del tempo di vita ha modificato i bisogni della società, impattando anche quelli sanitari. Anche se i miglioramenti della medicina favoriscono la generale riduzione dei mesi vissuti in uno stato di disabilità, l’incremento numerico del gruppo di popolazione più anziana comporta l’aumento dei soggetti in condizioni di vulnerabilità a causa delle molteplici patologie di cui sono affetti e dei carichi farmacologici necessari al loro trattamento. In questi casi è necessario attuare modalità di sorveglianza clinica più accurate e continuative. Le attuali modalità di gestione sono tali da far spesso ricorrere tali soggetti ai servizi di emergenza ospedaliera, con un notevole aggravio di spesa. Una ricerca francese ha calcolato che il costo sanitario medio dei soggetti di età inferiore a 25 anni si aggira attorno a cento euro l’anno, mentre quello relativo ai soggetti di età superiore a 85 anni è di circa cinquemila euro.

Come può realizzarsi una maggiore prossimità verso gli anziani? Cosa può fare, in particolare, la sanità pubblica?
Rispondo alla sua domanda con altre domande. Perché accettiamo tutti che il pediatra sia la figura specialistica che debba gestire il bambino, mentre non riconosciamo nel geriatra il regista sanitario di una fase altrettanto delicata della nostra vita? Perché si continuano a gestire i prevedibili episodi di riacutizzazioni dei nostri anziani più fragili con la stressa organizzazione con cui si gestisce l’evento acuto, rinunciando a sistemi di sorveglianza proattiva più efficaci, capaci di azioni correttive più tempestive, che ridicano il diffuso ricorso al sistema dell’emergenza? L’attività di medicina di iniziativa, condotta in sinergia tra equipe territoriali e ospedaliere, con l’utilizzo diffuso della telemedicina, potrebbe favorire la permanenza dei soggetti nel proprio contesto familiare riducendo sia le ospedalizzazioni che gli ingressi senza ritorno nelle strutture residenziali di cui tanto si è parlato durante la pandemia. Individuare il corretto luogo delle cure di un soggetto anziano fragile, piuttosto che affidarlo alle cure ospedaliere secondo disponibilità occasionali di posti letto, è un obbligo morale che stiamo trascurando.

Cosa può fare, in particolare, la sanità pubblica?
Spetta al Sistema Sanitario Nazionale il coraggio di sperimentare nuove modalità di erogazione di servizi, attenti a prediligere la continuità della presa in carico delle cure, condotte da equipe multiprofessionali capaci di scegliere, con il soggetto interessato ed i suoi familiari, i percorsi di cura ed i luoghi più idonei di erogazione delle stesse. In età geriatrica è necessario superare il paradigma della malattia a favore della funzione e della preservazione dell’integrità della persona umana. Siamo portati a farci carico dei bisogni biologici della persona, ma trascuriamo spesso i desideri personali. I tecnicismi della scienza medica devono poter essere usati nell’ottica del soddisfacimento del bisogno primario di realizzazione. L’individuo viene prima delle sue patologie! E quando l’individuo non è più in condizioni di scegliere, l’astensionismo attivo da pratiche sanitarie di dubbia utilità è una scelta che il Geriatra deve poter proporre al contesto familiare. Questa questione è la più delicata. Quanto è difficile gestire volontà diverse dei familiari aventi diritto di scelta!

Come è cambiata la vita nel suo reparto da quando è iniziata l’emergenza coronavirus?
Il cambiamento è stato profondo. Sono state superate le barriere dell’età, abbiamo accolto anche puerpere subito dopo il parto. In questo paradossalmente la nostra cultura specialistica ci è stata di aiuto. La nostra specialità, nata in Inghilterra, viene definita ad elevato contatto e a bassa tecnologia. I sistemi di protezione individuale, utili a preservare gli operatori, hanno posto qualche barriera in più al contatto che ha trovato comunque nuove modalità di realizzazione. L’equipe si è arricchita di molte figure professionali, alcune provenienti da altre unità operative, altre dal mondo dei “riservisti” sanitari in pensione, che hanno risposto alla richiesta di aiuto apportando doti preziosissime: conoscenze specifiche, saldezza d’animo, entusiasmo, tutte preziose qualità che hanno galvanizzato la squadra che ho avuto l’onore di dirigere. È stata un’operazione corale dove sono prevalsi l’attitudine al servizio alla persona in difficoltà e l’assoluto rispetto dell’obbligo dettato dall’emergenza: assicurare le necessità assistenziali essenziali e dimettere appena possibile, data la drammatica richiesta di posti. Almeno il 30% dei ricoveri è avvenuto da fuori sede, ciò ha comportato l’ulteriore onere di stabilire contati proficui con le realtà di provenienza.

Considerate l’età e le infermità, i vostri pazienti sono più fragili di altri. Come siete riusciti a gestire le loro paure e a mantenere un rapporto di umanità, nonostante le restrizioni?
Esercitando al massimo la relazione di aiuto sia nei confronti di soggetti separati fisicamente dagli affetti familiare e spesso lontani dai loro territori di vita di relazione, che verso i loro familiari che non potevano supportarli con la loro presenza. In questo gli strumenti di videocomunicazione, che abbiamo approntato, ci hanno dato un grosso aiuto. La maggior parte dei soggetti trattati sono stati pazienti geriatrici. Il tasso di mortalità è stato elevato. Le modalità di gestione delle salme particolarmente laboriosa e “dura” da mettere in atto. La mancata presenza dei congiunti ha suscitato negli operatori il bisogno di sostituirsi a loro nel momento del commiato. La compassione è stata profondamente percepita ed introiettata da tutti gli operatori.

C’è qualche paziente di questi mesi che le è rimasto nel cuore più di altri? Perché?
Sono stati gli operatori dell’assistenza e gli infermieri, coloro i quali hanno avuto il contatto più continuativo con i pazienti, che hanno accolto le loro ansie e li hanno costantemente assistiti. Rispondo per loro: tutti i pazienti sono rimasti nel nostro cuore.

Cosa ricorderà di questa pandemia?
La resilienza del gruppo; la duttilità e la dedizioni mostrata da ciascuno nell’assolvere i più svariati compiti che l’emergenza del momento imponeva; l’incertezza dell’ oggi e la speranza del domani, sentimento costantemente presente in ognuno di noi. Ricordo anche il disagio personale di cittadino telespettatore nel ricevere una comunicazione, ridondante, allarmante, quasi incline al “gossip”, sostanzialmente non adeguata ai bisogni della gestione emergenziale. Talvolta anche il silenzio può essere una forma saggia di comunicazione.

Che messaggio si sente di dare ai nostri lettori?
Le crisi hanno il loro lato positivo, possono essere elemento di svolta e di crescita, se non sopravviene l’oblio. La pandemia non è ancora sconfitta: dobbiamo continuare ad essere vigili nel momento delle progressive liberalizzazioni. Dobbiamo avere fiducia nella scienza, che è fatta da donne e uomini e procede per aggiustamenti necessari in corso di esercizio. Dobbiamo avere fiducia nelle vaccinazioni, unico strumento che può contenere il fenomeno della mutazione del virus. Penso costantemente alle condizioni di vita dei popoli che ancora non dispongono di tali presidi – così come è successo a noi nella fase iniziale – e provo un profondo imbarazzo.

 

Carletta Di Blasio: