Gesù è a Nazareth, nella sua terra. E’ sabato e sta insegnando nella sinagoga.
«E molti, ascoltando, rimanevano stupiti…», leggiamo nel Vangelo.
Lo stupore è l’atteggiamento di partenza di tutti coloro che stanno ascoltando Gesù, l’atteggiamento di chi, in generale, resta colpito da qualcosa, in questo caso le parole del Signore.
Parole che, poi, fanno emergere alcune domande proprio negli ascoltatori: qual è l’origine di questa sapienza e di questa potenza? Chi è quest’uomo?
La risposta sembra ovvia: è una sapienza che viene da Dio, quest’uomo è Dio!
Ma questa risposta “ovvia” è impedita da una constatazione che sembra andare in senso contrario: ma è il falegname! E’ il figlio di Maria! Vale a dire è un nostro vicino di casa, una persona che conosciamo da tanto tempo, conosciamo tutta la sua famiglia.
Ecco che la meraviglia, lo stupore, cominciano a chiudersi. Perché invece di lasciarsi mettere in discussione da Gesù, questa gente mette in discussione l’opera di Dio: perché Dio si dovrebbe rivelare proprio in costui? Perché non ha scelto un altro più ricco, più nobile, più dotto?
Ed è proprio a partire da questi pensieri e considerazioni che dallo stupore si passa alla scandalo! Scandalo che impedisce agli abitanti di Nazareth di credere, scandalo che è di ostacolo alla fede, scandalo che viene proprio dalla persona di Gesù, dalle sue umili origini, dal suo modo umile e “normale” di essere tra noi!
Possiamo comprendere le difficoltà di queste persone, d’altro canto non ci chiederemmo anche noi, nella loro situazione, non ci chiediamo anche noi, oggi, “ma la presenza di Dio non dovrebbe essere più luminosa, più potente? Ma è possibile che l’inviato di Dio si presenti nelle vesti di un uomo qualunque? Si manifesti nella più normale quotidianità e ferialità e, per di più, in una banale cittadina qualunque?”.
Davvero con Gesù ci troviamo davanti ad uno scandalo, ma lo scandalo di un Dio fatto carne, che sottostà alla legge della fatica umana e del bisogno, del lavoro e del cibo, della veglia e del sonno, della vita e della morte. Questo significa che, come ci conferma San Paolo nella seconda lettura, la mia debolezza, la mia fragilità, la mia creaturalità sono luogo privilegiato per poter incontrare Dio e farne esperienza, e hanno senso perché Dio li ha assunti, fatti propri, condivisi, abitati.
Lo vorremmo diverso, invece, noi, Dio: ci piace condividere le prerogative che pensiamo sue, la potenza, la gloria, meno gradiamo che Lui condivida le nostre delle quali volentieri faremmo a meno, la nostra umanità, le nostre fatiche.
E Gesù «si meravigliava della loro incredulità», ma potremmo aggiungere della nostra incredulità.
E l’evangelista Marco conclude dicendo che «lì non poteva compiere nessun prodigio…».
Gesù non può fare miracoli là dove l’incredulità è ostinata, ma non per una forma di ritorsione nei confronti della gente che non crede. No!
I miracoli di Gesù non sono gesti spettacolari, fatti per ottenere l’applauso e piegare la resistenza di chi non vuole credere ma eventi dell’amore di Dio, possibili e leggibili unicamente là dove c’è disponibilità a credere, cioè disponibilità a lasciare a Dio le redini della nostra vita.
Perché se non si crede al potere dell’Amore, questo non potrà mai manifestarsi.
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