Di Padre Renato Zilio, Direttore Migrantes Marche
MARCHE – «Mah! Ormai mi ci sono abituata, non vado più a messa: c’é la TV.» Eleonora con i suoi sessantanove anni é schietta, rassegnata. É vero, questa pandemia ha portato il senso della rottura. Di una tradizione, di abitudini. Di una routine abituale.
Come missionario, mi sorprendeva sempre: “Padre, sapesse, ho perso la messa!” la prima cosa da dire in confessione. Come fosse il peccato più grande. Frutto, forse, di un’ insistenza da noi martellante, che all’estero non si riscontra. E l’odio, l’individualismo, l’indifferenza o la maldicenza, che spesso avvelenano l’esistenza degli altri…?!
Accompagnando comunità dei nostri migranti italiani all’estero, osservavo che per loro era quasi naturale questo movimento di sistole e di diastole, del disperdersi e del ritrovarsi e poi del disperdersi ancora… Sì, il movimento del cuore per un rito religioso, la santa messa. Non servivano raccomandazioni. In emigrazione, per qualsiasi religione, cristiana o musulmana, è prezioso rivedersi, ridire insieme la propria fede. E il proprio coraggio, dono di Dio. È come un riprendere fiato, per combattere. Perché per ogni migrante sulla terra esistere è combattere. Nulla di più.
Ciononostante, mi vengono spesso alla mente le parole di un missionario bresciano, padre Flaminio, quando era di ritorno dalla sua Valcamonica. “Sapessi quanto ho battagliato con i preti della mia terra! Mettono la messa dappertutto e ad ogni momento…perfino in cimitero! Automaticamente, come una routine!”
All’estero, in Europa, missione dove ci trovavamo, poche volte si celebrava l’eucarestia. Non, per esempio, all’occasione di funerali. Si celebrava, invece… il funerale! O unicamente il matrimonio, all’occasione dell’arrivo dei due sposi. Una celebrazione bella, viva, con canti, lettura della Parola di Dio, preghiere, testimonianze e gesti simbolici. I partecipanti, che spesso non erano solo cristiani, ma musulmani, non credenti o altro vi si ritrovavano benissimo. Anzi, alla fine, a volte, sommessamente, vengono a dirvi «grazie!».
All’inizio di un funerale, la persona più intima, – un figlio o un giovane nipote – va solitamente ad accendere dal cero pasquale un luce accanto al defunto. Nel silenzio generale, un gesto toccante. Per dire «grazie della luce di coraggio, di fede, di sacrificio o di tenerezza che hai acceso nel nostro cuore. In nome di Cristo». Le letture vengono scelte e proclamate da amici o familiari. Alla fine, sempre qualcuno della famiglia o del suo entourage prende la parola: breve, toccante, preparata con cura. Commossa. Anche perché, spesso, è la prima volta che gli dicono “grazie”. E poi tutti ci si mette in fila per passare, così, davanti al defunto per un gesto personale, tenero, di benedizione con l’acquasanta o un gesto di riconoscenza sfiorando la bara. Una celebrazione corale, dove ognuno, come in un mosaico, mette qualcosa di suo. Ed è sempre un miracolo che si rinnova. Sì, momenti unici di testimonianza. E, soprattutto, di speranza. Aver messo, così, insieme, nelle mani di Dio quella vita che Lui, un giorno, aveva affidato alle nostre mani.
Lo stesso lo si vive al matrimonio, naturalmente in un clima diverso, vivo e gioioso. Ed è sempre la Parola di Dio che convoca, dicendo quanto Dio ama il suo popolo ed ognuno di noi. Senza misura e senza condizioni. Immagine incoraggiante per chi si sta impegnandosi sul cammino dell’amore. E al suo vero prodigio: la comunione delle differenze. Questa fa ripetere ogni giorno parole impensabili, incredibili: «La tua differenza è la mia ricchezza!»
Ma anche le celebrazioni comunitarie del perdono hanno lo stesso timbro, la stessa forza di trasformare gli animi. Ed è alla sera, dopo cena, un grande momento di preghiera insieme all’occasione dell’Avvento, della Quaresima… Si ascolta insieme l’invito di Isaia, la profezia di Gioele, l’umiltà dei salmi, le raccomandazioni del Signore, si canta e si prega… Si resta insieme nel silenzio, porta privilegiata al mistero di Dio. Poi si incontra in piedi uno dei sacerdoti, diritti in piedi, distribuiti lungo tutta la navata della chiesa. Per mettere le proprie mani nelle sue e confidargli brevemente il nostro peccato. Riceverne, finalmente, il perdono. Uscendo, il suono d’organo con tutti i suoi registri, squillando alla fine della celebrazione, non l’avete mai sentito così forte, libero e potente. Per dirvi tutta la gioia di Dio.
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