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Haiti. Zampaglione (Caritas): “Il bisogno genera paura che delle volte si traduce in violenza”

Elisabetta Gramolini

Ora l’emergenza è sanitaria. A circa venti giorni dal terremoto che ha devastato nuovamente Haiti e la successiva tempesta Grace, la Caritas italiana è pronta ad affiancare le organizzazioni locali per affrontare i bisogni della popolazione. Le tante tendopoli che sono sorte non hanno servizi igienici. Manca l’acqua e il pericolo è che si diffondano infezioni e malattie. Nel Paese si registrano casi di abusi su minori e donne, sono frequenti gli episodi di violenza e gli assalti anche ai convogli di aiuti. “Il bisogno genera paura che delle volte si traduce in violenza. Bisogna intervenire immediatamente per raggiungere tutti nel più breve tempo possibile ed evitare che la situazione degeneri”, dice al Sir Clara Zampaglione, coordinatrice Caritas italiana ad Haiti.

Qual è il bilancio del terremoto del 14 agosto? Il numero di 2500 morti che circolava due giorni fa le risulta accertato?
Secondo un report che ci è arrivato oggi, il terremoto ha provocato 12mila feriti e 2237 morti e circa 350 persone disperse. È plausibile quindi la stima di circa 2500 morti. Le famiglie in stato di grave necessità sono 36mila, 650mila sono quelle in stato di urgenza che hanno bisogno di assistenza urgente.

Qual è la priorità al momento?
L’emergenza ora è quella di garantire la sicurezza alimentare, l’acqua potabile, l’assistenza medica e l’igiene. I rischi sono la diffusione di malattie come il Covid, il colera, il tifo e le altre infezioni. Si registrano tante altre conseguenze fra cui abusi su minori e donne sole, specie nelle zone dove stanno sorgendo le tendopoli prive di servizi igienici, casi di abbandono di minori non accompagnati e di assalti ai convogli che portano aiuti. Le violenze non sono giustificabili ma stiamo parlando di una popolazione già gravata dal bisogno prima del terremoto. Nonostante gli aiuti stiano arrivando in maniera massiva, perché la comunità internazionale e le Ong attive nella zona si sono attivate immediatamente. Pare che il governo ad interim e la protezione civile stiano collaborando per coordinare le organizzazioni. Il problema è che le aree colpite sono tante fra cui molte zone remote perciò molte famiglie non riescono ad essere raggiunte dagli aiuti. Il bisogno genera paura che delle volte si traduce in violenza. Bisogna intervenire immediatamente per raggiungere tutti nel più breve tempo possibile ed evitare che la situazione degeneri.

In che modo è presente la Caritas italiana?
Non abbiamo una equipe locale, ci appoggiamo alla Caritas locale perché facciamo una attività di accompagnamento. Caritas italiana ha avviato una raccolta fondi a cui i donatori stanno rispondendo molto bene. Inoltre la Conferenza episcopale italiana ha stanziato un milione di euro per l’emergenza che verrà gestito dalla Caritas italiana per finanziare le realtà locali che stanno intervenendo direttamente sull’urgenza. Noi accompagneremo e faremo un lavoro di supervisione dei partner.

Prima del terremoto qual era la situazione ad Haiti?
La situazione umanitaria era già critica. A parte le catastrofi naturali degli ultimi dieci anni, dal luglio 2018 si è generata una crisi sociopolitica con conseguenze devastanti in tutti gli aspetti della vita quotidiana. Gli scandali di corruzione hanno fatto insorgere a volte pacificamente a volte meno la popolazione che ha bloccato le strade e i servizi rendendo la viabilità difficile. Tutto questo fino al 2019, quando sono iniziate le manifestazioni che hanno portato al blocco del Paese, la chiusura della frontiera, l’inflazione arrivata a livelli incredibili. L’insicurezza si è accompagnata all’aumento dei rapimenti, delle gang radicate nel territorio, specie nella capitale. Le armi hanno circolato in maniera massiccia, in un Paese in cui l’accesso all’istruzione è basso perché a pagamento. C’è una mancanza di prospettive, specie fra i giovani che vengono arruolati dalle bande armate finanziate dal business super redditizio dei sequestri lampo. Prima erano soprattutto gli haitiani a essere rapiti ora anche gli stranieri. L’incapacità del governo di saper intervenire sulla insicurezza generale e la scarsa volontà di arrivare ad elezioni ha influito e infine esacerbato la situazione. L’assassino del presidente Jovenel Moïse a luglio è stato forse l’apice. Perciò prima di questo terremoto la situazione era già critica.

Anche per la Caritas italiana era difficile operare in questo contesto?
Dopo l’uragano Matthew (2016), il nostro intervento si è concentrato principalmente sullo sviluppo tramite progetti. Il problema era a livello locale perché se le gang controllano il territorio o ci sono dei blocchi stradali ovviamente il progetto è difficile da attuare perché i beneficiari, che sono le persone più povere, non vengono raggiunti. Quando si fa un progetto ad Haiti bisogna inoltre considerare la grande imprevedibilità perché non c’è una rete o un’istituzione in grado di arginare i problemi.

La pandemia aveva intaccato il Paese?
Ad Haiti il Covid-19 era arrivato già a marzo 2020 come in tutto il mondo. Il governo aveva immediatamente emanato lo stato di emergenza, chiudendo le scuole e i servizi. Nei mesi successivi però i casi non erano cresciuti. A marzo di quest’anno invece i casi sono aumentati e si è cominciato a temere il virus. Anche la Caritas si era impegnata nella sensibilizzazione perché ad Haiti si è dovuto fare i conti anche con la incredulità della popolazione che non vedendo, come nel caso del colera, i morti in strada non recepiva il Covid come un problema. Va detto però che i dati certi sulla diffusione sono impossibili da avere perché il costo di un tampone è di 60-80 dollari che sono molti in un Paese povero.

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