“Tutti abbiamo un debito con l’Africa, dobbiamo restituirle tanto di quello che nei secoli le è stato rubato in termini di risorse economiche di una terra ricca dentro e fuori. Ma anche per lo sfruttamento e l’impoverimento della sua gente”. Don Giovanni Piumatti, 83 anni, per 50 anni fidei donum nel Nord Kivu, è rientrato da un anno nella sua diocesi di Pinerolo, ma “per parlare di Africa sono sempre disponibile, l’incontro con i miei amici d’Africa è uno dei più bei regali ricevuti in vita mia”. Lo slogan della Giornata missionaria mondiale 2021 “Testimoni e profeti” sembra cucito su di lui: è infatti testimone di drammi e ricchezze d’Africa, ma anche profeta della Parola annunciata alle genti con la sua stessa vita.
Don Piumatti, che la sua gente chiamava affettuosamente padiri (ovvero padre, fratello e guida spirituale insieme), racconta con passione il suo impegno missionario, a partire dall’arrivo negli anni Settanta ad Uvira nel Sud Kivu dell’ex Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo, all’epoca sotto il regime militare di Mobutu. In Italia si viveva l’appassionata stagione post conciliare e anche i giovani missionari di allora sentivano l’atmosfera di rinnovamento del Sessantotto. Parte per la missione portando con sé il modello di evangelizzazione di Charles de Foucauld: “con gli amici missionari andavamo in missione per condividere la vita della gente e per migliorarne le condizioni”. L’occasione viene dall’incontro con monsignor Emmanuel Kataliko, allora vescovo di Butembo che lo invia nel Nord Kivu, nel villaggio di Lukanga in una parrocchia rimasta senza sacerdoti. “Qui la popolazione aspettava l’arrivo di un pastore. Nel 1974 la situazione non era come oggi, sotto la dittatura di Mobutu nei villaggi c’era una specie di pax romana, una certa tranquillità. Malgrado le restrizioni eravamo riusciti a realizzare un piccolo ospedale col dispensario, una officina meccanica, una turbina idroelettrica. Strutture per migliorare il livello di vita della gente”.
Ma intanto la situazione cambia rapidamente in seguito al genocidio in Rwanda, e l’afflusso di rifugiati e le azioni guerriglia al confine. Alcune famiglie si trasferiscono nella foresta per fondare un nuovo villaggio, come ricorda Piumatti: “abbiamo deciso di fare come Abramo, abbiamo messo in pratica la Bibbia e siamo partiti. È nato il villaggio di Mwanga, nella zona in cui vivevano i cercatori d’oro, ma negli anni del vicino genocidio è stato invaso dai profughi ruandesi. Nel 1997, alla caduta di Mobutu, la regione di confine comincia ad essere martoriata, ma le famiglie del villaggio davano accoglienza agli sfollati, il villaggio era diventato un campo rifugiati. Dopo il 2000 cominciati gli attacchi, la guerriglia continua, gruppi ribelli in lotta uno contro l’altro, le rapine nei villaggi, le gang di bambini soldato. Oggi la situazione è molto più difficile di quando sono arrivato”.
Questa è la realtà che don Piumatti si è lasciato alle spalle rientrando in Italia ma che gli è rimasta viva nel cuore. Dove non ci sono solo ricordi ma un sentimento forte di appartenenza a quella terra così ricca da suscitare appetiti e speculazioni internazionali: “il Nord Kivu è una miniera a cielo aperto, c’è di tutto in quantità scandalosa: coltan, cobalto e oro sono dovunque, oggetto di inesauribili speculazioni internazionali. Ma è anche una miniera di umanità. Vivendo nel villaggio ho visto che le relazioni tra la gente non sono fatte di parole buttale lì a caso, ma sono solide e durature. Tutti sanno di essere sulla stessa barca e condividono lo stesso destino, le paure e le speranze”.

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