Di Paolo Marchionni*
MARCHE – Mi ha molto colpito la titolazione di tipo trionfalistico che ho avuto modo di leggere: “Mario ha vinto la sua battaglia”, si legge da più parti, ma io credo che questa vittoria sia la sconfitta di tutti noi, prima di tutto i medici, ma in realtà di tutta la società che probabilmente non ha saputo accompagnare adeguatamente Mario in questo suo lunghissimo calvario.
Non si tratta di negare diritti o di evitare di garantire libertà, ma qui si sta operando una rivoluzione copernicana al paradigma della cura: si pone un limite alla possibilità di curare e di essere curati, limite che viene giudicato tale non sulla base di elementi oggettivi di tipo sanitario ma legati alla individuale percezione.
I 4 capisaldi della sentenza della Corte Costituzionale del 2019, cui si aggancia la vicenda di Mario, sono noti: deve trattarsi di una “persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.
Nel nostro caso il Comitato Etico ha inteso che la “sussistenza di trattamenti di sostegno vitale” sia determinata dal fatto che il soggetto “ha impiantato un pacemaker, è fornito di un catetere vescicale a permanenza ed è sottoposto a manovre di evacuazione manuali”: francamente un po’ poco, rispetto alla sterminata letteratura sul tema che fino ad oggi ha considerato in quella nozione la ventilazione assistita, la idratazione e la nutrizione artificiali, come peraltro riconosciuto dallo stesso Comitato Etico. Inoltre, in relazione al tema delle “sofferenze fisiche o psicologiche che (la persona) reputa intollerabili”.
Il Comitato Etico ha ritenuto che “la storia del soggetto e le sue dichiarazioni siano coerenti con la manifestazione di una sofferenza sia fisica, sia psicologica che soggettivamente può considerarsi intollerabile”; ma – aggiunge – vi è “l’indisponibilità del soggetto ad accedere ad una terapia antidolorifica integrativa”: e dunque? Nessuno spazio per una terapia del dolore adeguata al caso? Come siamo lontani dall’antico precetto divinum opus est sedare dolorem!!!
Ed infine il Comitato Etico non si sbilancia sulla valutazione circa le modalità, la metodica ed il farmaco da usare per la realizzazione del suicidio assistito, e si limitata a dichiarare alcune “carenze” nella specificazione di tali modalità, sottolineando non essere “di sua competenza indicare le modalità alternative a quanto richiesto”.
Rimane la sensazione di amarezza e di sconfitta per la medicina ed in generale per quei criteri di sussidiarietà nella cura cui la nostra Costituzione ci ha sempre invitati e che, proprio in questi mesi di pandemia, credevamo si fossero ravvivati attingendo a quelle radici solidaristiche che fanno parte del bagaglio culturale del nostro popolo. Ci stiamo avviando al contrario, ed anzi ci siamo già avviati, verso una cultura dell’individualismo, che non valorizza le relazioni ma di fatto lascia solo il soggetto nelle sue scelte estreme.
* Vice-presidente Associazione Scienza&Vita
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