M.Michela Nicolais
“C’è un peccato fondamentale nella nostra vita cristiana: non camminare”. Ne è convinto mons. Leonardo Sapienza, reggente della Prefettura della Casa Pontificia, che nel suo ultimo libro, “Non perdiamo la Parola” (Editrice Rogate), accompagna i Vangeli festivi di questo anno liturgico, potremo dire, in stile sinodale, quello che la Chiesa per volere di Papa Francesco è chiamata ad adottare in questi tre anni. “Chi non avanza, regredisce”, recita un proverbio antico che la dice lunga sul paradigma del cristiano, perennemente in cammino verso un “oltre” che lo supera dando senso e pienezza ad ogni piccolo gesto e azione che abbia il sapore della ferialità quotidiana. “Abbiamo bisogno di riscoprire la bellezza della passione della nostra fede”, la tesi di Sapienza, perché “nel mondo nulla di grande è stato fatto senza passione”. E’ la passione, infatti, che ci impedisce di diventare “cristiani freddi, apatici, abitudinari, indifferenti”.
“Chi non arde non vive”, scriveva il poeta romanesco Trilussa: è “il principio basilare dalla vita autentica, non solo spirituale. Per essere luce e calore bisogna consumarsi. Se invece si pensa solo al proprio interesse, si rimane come pietra fredda”.
Nella vita cristiana, non c’è dinamismo senza il carburante della Parola: secondo l’autore del libro, “la crisi sopraggiunta con la pandemia del Covid ha raggiunto un risultato: ci ha fatto scoprire una virtù che non pensavamo di avere: la sobrietà”. E’ questa la chiave per realizzare un obiettivo imprescindibile, anche in tempi drammatici come quelli della pandemia, che ha riacutizzano la “cultura del lamento”. Bisogna uscire dal letargo spirituale, come ci ha ricordato il tempo liturgico dell’Avvento, che “è una chiamata all’azione, al darci da fare, al rimboccarci le maniche. A non fermarci solo alla denuncia che tutto va male, nella società e nella Chiesa”. Come ci insegna Papa Francesco, “la critica sterile, il lamento continuo non servono! SI tratta di superare una sorta di nausea, di vuoto, di scoraggiamento che aleggia nella nostra società così demotivata, sazia, ma svuotata interiormente”.
Cosa dobbiamo fare, allora? Prima di tutto imparare a conoscere “le preferenze di Dio, il capovolgimento della nostra scala di valori”: “Dio preferisce la vicinanza dei piccoli, dei poveri, della gente che non conta”. Come i pastori, che “ci fanno capire che c’è sempre qualcuno che è più vicino a Dio di quanto pretendiamo esserlo noi”. Per far intuire la portata di ciò di cui abbiamo più bisogno, mons. Sapienza cita il saluto arabo più comune, “Marhaban bika”, che letteralmente vuol dire: “Che Dio apra davanti a te gli spazi”. Abbiamo bisogno di questo dono:
“avere un respiro largo, un cuore immenso, uno sguardo profondo. È ciò che spesso manca alla società in cui viviamo, che non perde solo l’aria fisica, sempre più inquinata, ma che si asfissia anche interiormente, non lasciandosi più trasportare dal vento dello Spirito, illuminare dal sole di Dio”.
Ma, soprattutto, “abbiamo bisogno di sentire le mani di Dio che ci stringono e non ci lasciano cadere”. Una antica benedizione recita così: “Possa il vento essere alle tue spalle. Possa il sole splendere caldo nel tuo viso. Possa la pioggia leggera cadere nei tuo campi. E , fino a quando non ci rincontreremo, possa Dio tenerti nel palmo della sua mano”.
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