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Il ritorno di Harry Potter

Alessandro Di Medio

(Foto ANSA/SIR)

Alessandro Di Medio

Harry Potter è tornato. Beh, in effetti non se n’è mai andato, perché le schiere di fan dei libri e dei film hanno continuato a leggere e a vedere, a far leggere e a far vedere, una delle saghe indubbiamente più vivide ed evocative di questo primo pezzetto del terzo millennio. Cionondimeno si può parlare di ritorno, perché in occasione del ventesimo anniversario dell’uscita del primo film, corrispondente al primo libro (Harry Potter e la pietra filosofale), le luci della ribalta si sono tutte riaccese sul maghetto e i suoi amici, con eventi, riedizioni dei libri e, soprattutto, con una speciale trasmissione Harry Potter 20th Anniversary: Return to Hogwarts, in cui gli attori, ormai cresciuti (o invecchiati) interpretano se stessi che si rincontrano e parlano dei bei vecchi tempi andati.

Tutto questo ci permette una riflessione sul senso e il valore della saga di Harry Potter, e su quanto, secondo la domanda che guida la rubrica di Decoder, essa risuoni o meno dei semina Verbi che ne potrebbero fare un prezioso strumento formativo, specialmente per i più piccoli.

Nel n. 3641 di Civiltà Cattolica (2 marzo 2002) p. Spadaro S.I. scrisse un articolo molto accurato ed equilibrato sulla saga allora nascente. In particolare, rifacendosi a un altro articolo di un autore francese (S. Tisseron, “Harry Potter expliqué aux parents”, in Le Monde diplomatique, dicembre 2001), il gesuita si chiese se sia possibile attribuire effettivamente un valore simbolico, cristologico alla saga e al personaggio, come in effetti Tisseron sembra suggerire.

(Foto ANSA/SIR)

È chiaro che si pongano simili domande: una delle storie più lette al mondo parla di un ragazzino fragile e buono, che nonostante i suoi limiti, insieme ai suoi amici, riesce a sconfiggere il male – ne possono fare qualcosa i Cattolici, di questa storia? Non si tratta forse anche in questo caso, come per la saga tolkeniana de Il Signore degli Anelli e quella lewisiana de Le Cronache di Narnia, di storie scritte da cristiani per portare a un livello di divulgazione simbolica, mediaticamente accessibile, quanto è rivelato dalla Parola?

Spadaro mostrò già allora come molti fossero, e siano, scettici a riguardo nel caso di Harry Potter; negli anni si è arrivati ad asserire che, al contrario delle altre saghe menzionate, quella del maghetto inglese favorirebbe l’interesse per l’occultismo e il satanismo, e sebbene l’articolo di Spadaro invitasse a una visione più equilibrata, egli stesso poneva l’interrogativo circa un’eccessiva auto-referenzialità del personaggio, una troppo facile scorciatoia nell’irreale della magia.

Questi dubbi erano legittimi, perché nel periodo in cui venivano fatte tali considerazioni erano usciti solo i primi quattro volumi della storia.

In realtà, è proprio il finale del settimo e ultimo volume, Harry Potter e i Doni della Morte, a rispondere definitivamente e chiaramente ai dubbi sul valore spirituale di questa storia; siamo nel momento in cui Harry fronteggia per l’ultima volta Voldemort, in quello che deve essere lo scontro finale, e il ragazzo, tornato da una specie di limbo che, guarda caso, aveva chiamato “King’s Cross” (come la stazione londinese, o come un’altra cosa?), mostra al suo nemico la verità più essenziale di tutta la vicenda che li ha visti intrecciati:

“È stato un caso quando mia madre morì per salvarmi? […] Un caso che io abbia deciso di combattere in quel cimitero? Un caso che io non mi sia difeso questa notte, eppure sia sopravvissuto, e tornato per combattere di nuovo?”. “Casi!” urlò Voldemort, ma ancora non colpì, e la folla era come pietrificata, delle centinaia di persone che riempivano la sala sembrava che solo loro due respirassero. […] “Non ucciderai nessun altro questa notte” ribatté Harry. Ancora si muovevano in cerchio e si fissavano, occhi verdi dentro occhi rossi. “Non potrai uccidere nessuno di loro, mai più. Non capisci? Ero pronto a morire per impedirti di fare del male a queste persone…”. “Ma non l’hai fatto!” “… era mia intenzione, ed è questo che importa. Ho fatto quello che ha fatto mia madre. Sono protetti da te. Non hai notato che nessuno dei tuoi incantesimi funziona su di loro? Non puoi torturarli. Non puoi toccarli.” (J. K. Rowling, ivi).

(Foto ANSA/SIR)

La verità è che la magia più forte, anzi l’unica vera, è la comunione tra le persone, l’amore che induce a dare la vita per i propri amici (cfr. Gv 15, 13): dinanzi a questa forza imbattibile ogni incantesimo svanisce, e il lettore attento coglierà che in questa saga di sette volumi la magia, il cui “meccanismo” o principio non è mai spiegato, non è nient’altro che una colorita metafora della persona stessa e delle sue qualità, del suo estro e della sua creatività: nelle storie di Harry Potter, gli incantesimi di ogni mago o strega attingono a quello che lui o lei è, per ferire o risanare, per nutrire o torturare, per proteggere o attaccare, attraverso formule e bacchette, cioè gesti, parole e cose – ma questo, in fondo, vale per ognuno di noi, che attraverso quello che diciamo e che facciamo produciamo ogni giorno vita o morte, a seconda di quale delle due è preponderante nel nostro cuore.

Quindi sì, assolutamente sì a Harry Potter, che nell’oceano di ciarpame e oscenità mediatiche che intasano gli occhi e il cuore dei più piccoli, dopo vent’anni continua a dirci che il bene vincerà sempre sul male, che le relazioni sono più importanti del potere, e che ognuno di noi ha qualcosa di “magico” in sé, qualcosa di unico e speciale, un vero e proprio potere capace di cambiare il mondo, se accettiamo di metterlo in gioco: la nostra vocazione personale.

Per quanto riguarda i denigratori della saga, non possiamo che constatare con dispiacere che ad oggi ci sono troppi di noi Cattolici che si fermano alla copertina dei libri, e li giudicano senza averli mai letti – un po’ quello che rischiamo anche con le persone, quando ci fermiamo alla loro “copertina”, e senza conoscerle riteniamo di poterle giudicare. Da discepoli di Colui che solo conosceva il cuore delle persone, e ci invita a non giudicare, possiamo aspettarci forse un po’ di più da noi stessi.