Giovanni M. Capetta
Nella vita di Gesù vi è un’altra coppia di fratelli che ha un ruolo importante fra i suoi discepoli e che ci capita, leggendo i Vangeli, di vedere molto spesso associati. Sono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo e – così ipotizza qualche studioso – di Salome. Una famiglia di pescatori, probabilmente piuttosto agiata, che viveva a Betsaida, sulle rive del Lago di Galilea come la famiglia di Simone e Andrea. Giovanni, proprio insieme ad Andrea, aveva lasciato le reti per seguire il Battista e a lui, o almeno alla sua comunità viene attribuita la stesura del quarto Vangelo.
Egli è quello che non nominandosi direttamente si definisce “il discepolo che Gesù amava”, colui che gli è accanto durante l’ultima cena, ma soprattutto l’unico che resta ai piedi della croce e a cui Gesù affida la madre. Ma suo fratello? Il fratello è plausibile che sia stato maggiore di età, perché è a lui che viene aggiunto “figlio di Zebedeo”. Possiamo immaginare che anche lui sia stato chiamato da Giovanni che lo invita ad unirsi a quelli che si fidano di Gesù, sono affascinati dalla sua parola e lo scelgono come maestro.
Poi diventa proprio uno dei più intimi, tanto che il trio Pietro, Giacomo e Giovanni diviene una “scelta nella scelta” da parte di Gesù. Loro tre sono i privilegiati che assistono alla Trasfigurazione del Signore (Mc 9, 2), sempre e solo a loro tre Gesù chiede di seguirlo quando ridona la vita alla figlia di Giairo (Lc 8, 51) e sono ancora loro tre a cui, nel momento più doloroso, nella notte dell’Orto degli Ulivi, il maestro chiede (invano) di stare svegli con lui, per condividere la paura tutta umana per quello che lo attende. Dunque, Giacomo uno dei migliori? Un duro e puro? Uno di quelli che seguirebbe Gesù in capo al mondo ed è disposto a dare la vita per lui? Non proprio o, meglio, non solo questo. A Giacomo e suo fratello Giovanni Gesù dà un soprannome fin dalla loro chiamata: i boanerghes, che in aramaico significa “figli del tuono”. Pur con temperamenti diversi, i due dovevano essere accomunati da una grande passione, da un’emotività che non sapevano facilmente trattenere, un entusiasmo facile a tracimare nel fanatismo.
Un episodio conferma la loro nomea: Gesù e i dodici passano da un villaggio di Samaritani, che quando capiscono che sono diretti verso Gerusalemme, città che non considerano santa, non vogliono accoglierli. I due fratelli hanno uno scatto violento e chiedono al maestro: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?”, ma Gesù si volta e li rimprovera con la pazienza severa di chi constata che non lo conoscono ancora bene, non hanno capito come opera Dio in lui (Lc 9, 54-55). Non è difficile immaginare come abbiano potuto reagire, magari ricevendo i rimproveri anche degli altri compagni, subito pronti a mettere alla berlina la loro impacciata irruenza. L’occasione, però, in cui Giacomo e Giovanni sono ancora più vicini alla nostra debolezza di uomini è quando loro madre chiede a Gesù che i due figli possano sedere uno alla destra e uno alla sinistra nel Suo regno (Mt 20, 20-23). Proprio quando Gesù rivela che a Gerusalemme, dove stanno andando, sarà arrestato, condannato, flagellato e crocifisso, ma il terzo giorno resusciterà, questa madre se ne esce con la richiesta più ingenua ed ottusa. La donna, verosimilmente spinta dai figli (nel Vangelo di Marco, sono loro direttamente a chiedere la “raccomandazione”) è di certo devota al suo rabbì, lo segue da tempo insieme ad altre donne che si occupano del sostentamento dei dodici, ma dimostra di non aver capito nulla di quel regno di cui parla. Prenotarsi dei posti nella gloria del Paradiso non è possibile nella logica di totale dedizione che il Signore sta per manifestare pienamente. Gesù – ci pare di vederlo un po’ sconfortato – dice che non sanno quello che stanno chiedendo, che dovrebbero desiderare di bere il suo calice e Giacomo lo farà (perché sarà il primo dei dodici a venire martirizzato da re Erode Agrippa I nel 44 d.C. come ci dicono gli Atti degli Apostoli: At 12, 2), ma in questo momento è ancora lontano dal donare la vita, tutto intriso di vanagloria e desiderio di primeggiare. Gli altri discepoli si arrabbiano con i due fratelli ed è l’occasione perché Gesù con pazienza riveli ancora una volta la logica rovesciata del suo regno di salvezza: “tra voi non sarà così”: siamo chiamati a servire, non ad essere serviti. Consolante apprendere che non sia bastato camminare a fianco del Signore, averlo a portata di mano, giorno dopo giorno, vedere con i propri occhi i suoi prodigi per convertire pienamente il proprio animo. Allora c’è speranza per tutti, anche per noi! Allora la misericordia di Dio non si ferma di fronte anche alle défaillance più vergognose: possiamo metterci a nudo, confessare a cosa ci spingerebbe un’immaginazione tutta proiettata su noi stessi e la nostra comfort zone, Gesù non si scandalizza, ci prende per mano, ci porta con sé fino al momento decisivo, ci fa sperimentare che la sua gloria passa inevitabilmente per la morte di croce, che non c’è salvezza fuori di essa, ma Lui è lì, con noi, da allora e per sempre e abbiamo tutta la vita, fino all’ultimo secondo, per riuscire a capirlo e a viverlo.
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