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Pietro Pompei: San Benedetto, il ricordo del lavoro del funaio e di: “Felì” e “Cecchì”

Di Pietro Pompei

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Buttiamoci pure in un “mare di corda” per riassaporare,  non dico il profumo che è anacronistico, ma quel particolare odore della canapa, di cui era impregnato tutto il nostro ambiente. Lungo le vie o le piazze o il letto dell’Albula era tutto un andare di funai e dentro casa, le sedie impagliate, mostravano il lavoro delle retare che rubavano il tempo ai lavori domestici.  Le “tartane” erano lo stemma delle nostre famiglie e guarnivano le stanze dei nostri cosiddetti “soggiorni”. Erano il luogo di divertimento di noi ragazzi e talvolta servivano per “arrotare i denti “ di qualche topo di passaggio.  Mi son chiesto  quanti , in questi giorni, di “amarcord” di felliniana memoria, o di “pandemia” con la facile diffusione del “virus” hanno  riportato nella memoria le fantasie, le vicissitudini, gli ambienti di quel tempo non troppo lontano; in particolare della tubercolosi ( il mal sottile) che mieteva vittime specie tra i funai a causa di un lavoro inumano in un ambiente che non conosceva le stagioni e poco remunerato.  E’ normale che una particolare sensazione derivante da una musica,  da un profumo o da un dolore, ti ripresenti un luogo o un avvenimento.

L’odore della canapa e Filippo mi si presentano ancora sempre simultaneamente.  “Felì“, così lo chiamavamo, il suo nome sembrò racchiudere il suo destino.  Fummo concepiti più o meno nello stesso mese,  se le nostre madri ci portarono al fonte battesimale nello stesso giorno e la nostra vita proseguì insieme fino a quando le nostre famiglie ci imposero le loro differenze sociali. Fui mandato a scuola, mentre “Felì” servì per girare la ruota.

Cecchì“, il padre di Filippo,  era tutto incurvato, le scapole ingrossate accentuavano un fisico gibboso. Tutto il giorno faceva su e giù quei trentatré metri di un viottolo che aveva avuto in eredità insieme alla ruota grande, alle “girelle”, alle “furculette” e ai “crastije“; le stesse cose che avrebbe lasciato al figlio.  La ribellione è vocabolo di qualche decennio fa e così la questione sociale. “Felì” non era riuscito a raddrizzare le “aste” della prima elementare che dovette assaporare i calli del ferro della ruota del funaio. Ci guardavamo da lontano e aspettavamo le prime ombre della sera per giocare insieme dietro una palla di pezza o fare “flò” con un po’ di fango rubato alla terra.  D’inverno lo vestivano come uno “spaventapasseri”. Erano vestiti rimediati che non chiedevano il numero della taglia di quell’esile corpo raggrinzito dalla fame o la firma, simulacro dei nostri tempi.  Quante volte ho diviso con lui un pezzo di pane bagnato che aveva visto passare qualche granello di zucchero.  Una strada polverosa divideva l’uscio delle nostre case e nelle feste, mia madre metteva in un pentolino di rame qualcosa di caldo e con fare abituale mi ordinava :”Va a casa di Felì, e di’ alla madre se ne vogliono, visto che per noi è troppo”.  Lo lessi poi nei Promessi Sposi di Manzoni, ma nelle nostre famiglie illetterate c’era quella comprensione fra poveri che rendeva naturali questi gesti di solidarietà.

Le cose andarono così per qualche anno.  Quel triste autunno della nostra infanzia portò via prima del tempo le foglie dagli alberi e preannunciava un inverno particolarmente freddo.  Le continue piogge rallentarono il lavoro del funaio; noi bambini eravamo contenti perché potevamo stare più tempo insieme. Non così “Cecchì” che era particolarmente nervoso e spesso si inquietava per un nonnulla e “Felì” viveva nel terrore di possibili sfoghi paterni. La poca neve sui fili di erba che fiancheggiavano i viottoli dei funai, non impedì la ripresa del lavoro. “Felì” era lì con le mani livide, che un improvvisato “scaldino” non riusciva a scaldare. Ricordo ancora con tanta pietà quelle dita con i grumi di sangue raggelato sui geloni.

Un giorno fui sorpreso nel trovare un altro ragazzo a girare la ruota al posto di “Felì”. Mi dissero che non stava bene; dall’espressione di mia madre capii che non si trattava della solita febbre. Un fiotto di sangue aveva accompagnato un colpo violento di tosse che da un po’ di tempo lo tormentava. “Felì” stava male davvero ed a me era stato tassativamente proibito di andarlo  a trovare. Non sapevo che la “tisi” era contagiosa, non ho provato più tanto odio e rancore verso gli adulti per quelle proibizioni. Senza “Felì” non partecipai a nessuna delle tradizionali feste di fine anno. Venne il Natale e mamma comprese il motivo del mio cattivo umore. Mi preparò una pentola più grande del solito, aggiunse al brodo caldo un po’ di carne e mi disse: ” Va a fare gli auguri a Filippo, salutalo da parte nostra, non ti avvicinare però, perché si potrebbe affaticare”.

L’oscurità di quell’unica stanza che faceva pure da cucina, forse era un modo per nascondere la vergogna della povertà. “Felì” era a letto con al capezzale la madre e “Cecchì”, il padre.  Quello è rimasto nella mia memoria il più autentico “presepe” della mia vita.  Fu l’ultimo sorriso di “Felì”; feci uno sforzo incredibile nel salutarlo.

Lo portarono al “Sanatorio”. Ogni mattina guardavo quella porta in attesa del volto amico.  Un brutto giorno le campane della Chiesa della Madonna della Marina, mi dissero che “Felì” non sarebbe più tornato a prender parte ai nostri giochi.

Da allora mi porto dentro un’invidia per quegli “angioletti” con i quali, mia madre mi disse, Felì allora poteva giocare.

La Giornata Mondiale della Tubercolosi (TBC) viene celebrata in ricordo del 24 marzo 1882, quando Robert Koch annunciò alla comunità scientifica la scoperta dell’agente batterico responsabile della patologia, il cosiddetto bacillo di Koch.

 

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