Daniele Rocchi
“Ricostruire i legami che sono stati interrotti, rialzare le città distrutte dalla violenza, far fiorire un giardino laddove oggi ci sono terreni riarsi, infondere speranza a chi l’ha perduta ed esortare chi è chiuso in sé stesso a non temere il fratello. E guardare questo, che è già diventato cimitero, come un luogo di futura risurrezione di tutta l’area”. Terminò con questa consegna, lasciata da Papa Francesco, l’incontro “Mediterraneo, frontiera di pace” che portò a Bari dal 19 al 23 febbraio 2020 i vescovi di diciannove Paesi affacciati sul Mare Nostrum. Dopo due anni l’appuntamento si ripete a Firenze, sempre per iniziativa della Cei, ma questa volta con i vescovi ci saranno anche i sindaci delle città che si affacciano sul Mediterraneo, sempre più segnato da conflitti e tensioni. Papa Francesco, in più occasioni, ha parlato di “terza guerra mondiale a pezzi”: per questo appare significativo che ad ispirare l’incontro di Firenze sia la profezia di Giorgio La Pira con i suoi “Colloqui mediterranei” che vedeva il grande mare come “un universo delle nazioni illuminato da Cristo e dalla Chiesa”.
Tra i vescovi partecipanti ci sarà anche mons. Tomo Vukšić, neo arcivescovo di Sarajevo, in Bosnia ed Erzegovina. Sarajevo, come ripete spesso il card. Vinko Puljic, oggi arcivescovo emerito della Capitale bosniaca, “è la Gerusalemme dell’Europa; è una città simbolo e martire di una guerra fratricida che ha provocato la morte di oltre undicimila persone e che oggi si propone come paradigma della convivenza tra i popoli per l’Europa”, e come un punto di incontro tra Oriente e Occidente.
“Ogni luogo di incontro è importante perché è segno di un inizio di conoscenza, di amicizia e di fratellanza – dice al Sir mons. Vukšić -. Sappiamo, tuttavia, che spesso l’incontro tra le etnie, le fedi, le culture può portare anche allo scontro come è accaduto 30 anni in queste terre balcaniche. Perché l’incontro possa generare del bene occorre praticare la virtù della prudenza e avere un approccio realistico. La città di Sarajevo, come tutta la Bosnia-Erzegovina, ha fatto esperienza dell’incontro diventato scontro e le ferite di 30 anni fa sono ancora aperte”.
Eccellenza, la situazione nel suo Paese oggi vede tensioni crescenti causate anche da una crisi costituzionale che rende il futuro politico incerto e in autunno ci saranno le elezioni…
Siamo in periodo pre-elettorale e in vista del voto la politica sta tentando di riformare la Costituzione e le leggi elettorali. La comunità internazionale, Usa e Ue in particolare, sta monitorando quanto accade. Ci sono molte riunioni ma senza arrivare ad un accordo o ad una sintesi. Il nostro Paese, è bene ricordarlo, dal punto di vista giuridico non è stato ancora completato. Ci sono diverse leggi problematiche che presentano vuoti giuridici e altre che potremmo definire non giuste. Tante colpe del passato non sono state sanate. Per esempio la questione dei beni nazionalizzati dal regime comunista: questi non sono stati ancora restituiti e non esiste nessuna legge sulla denazionalizzazione. In molte zone del Paese si verificano manipolazioni politiche per occupare posti di potere. Oltre a questo abbiamo a che fare con l’ingiustizia sociale, con la corruzione vecchia e nuova, la mancanza di lavoro che produce emigrazione e impoverimento soprattutto tra i giovani. Le ferite della guerra sono ancora aperte e provocano dolore. Nonostante tutto confidiamo nei tentativi di dialogo tra la comunità internazionale e i politici locali. Speriamo in soluzioni giuste per tutti.
Poco fa citava la guerra: il prossimo 1° marzo saranno 30 anni dallo scoppio, nel 1992, del conflitto balcanico. Quale memoria il suo popolo ha di questo conflitto che ha provocato migliaia di morti?
La sofferenza è stata enorme per tutti ed è difficile sanare le ferite di chi ha perso la famiglia, amici, parenti e anche quel poco o tanto che aveva. Ci sono ferite che potrebbero apparire insanabili ma occorre fare ogni sforzo per aiutare la gente sotto il profilo psicologico e spirituale.
Una medicina potente è il perdono che libera le anime.
Il perdono deve essere accompagnato dalla giustizia legale e sociale. Promuovere il perdono e la riconciliazione è la missione della Chiesa in ogni istante.
Quanto pesa l’appartenenza ad una fede o ad una etnia in questo processo di riconciliazione?
Più che di questioni etniche o religiose parlerei più di appartenenze politiche e di mancata garanzia dei diritti ai vari gruppi etnici, diritti come il lavoro, per esempio. È bene ricordare che cristiani, cattolici, musulmani per secoli hanno convissuto – qui a Sarajevo è facile vedere una chiesa, una sinagoga e una moschea una vicina all’altra – . Molte città e villaggi avevano spesso una popolazione mista. Con la guerra diverse zone sono diventate mono-religiose e monoetniche, sono nate delle enclave che rendono difficile la convivenza.
All’incontro di Firenze quale sarà il suo contributo?
Vorrei portare una testimonianza di dialogo e ricordare che dialogo e incontro chiedono una certa dose di prudenza. Non bisogna essere ingenui. Il dialogo, infatti, non viene compreso da tutti allo stesso modo. Le percezioni che si possono avere nel mondo ortodosso o in quello islamico sono diverse da quelle che potremmo avere noi, in quanto cattolici. Quando si parla di diritti umani non sempre si ha la stessa visione e il dialogo non può prescindere dal riconoscimento dei diritti umani e della cittadinanza.
Apertura e dialogo vanno promossi sempre, costi quel che costi, ma senza perdere di vista la virtù della prudenza e un sano realismo. Il dialogo è l’unica via per far sì che il Mediterraneo torni ad essere un luogo di incontro, di unità e di sviluppo.