Elisabetta Gramolini
Definire la fusione nucleare il Santo Graal della scienza forse è esagerato. Di sicuro però si è riaccesa la speranza di ottenere energia pulita, senza produrre scorie. Gli scienziati europei del laboratorio Joint european torus (Jet) di Culham, un paesino vicino Oxford, hanno annunciato la svolta: il reattore è riuscito a produrre 59 megajoule nell’arco di 5 secondi (11 megawatt di potenza). Il significato dell’esperimento non è solo nella quantità di energia generata ma nei dati acquisiti per la realizzazione di un altro reattore a fusione di dimensioni maggiori, ora in costruzione in Provenza, chiamato Iter (www.iter.org) a cui partecipano due terzi del mondo. In questi progetti il nostro Paese gioca un ruolo di primo piano. L’Enea coordina la squadra italiana impegnata sia nella ricerca e nelle sperimentazioni che si stanno compiendo in Inghilterra sia nella costruzione delle componenti del nuovo impianto in Francia. Paola Batistoni, responsabile della Sezione Sviluppo e Promozione della Fusione dell’Enea, spiega la portata dell’esperimento condotto dal Jet e illustra i prossimi passi. “Per fare Iter – dice – abbiamo già sviluppato parecchie tecnologie ma in parallelo dobbiamo continuare a svilupparne altre che ci permettano di avere un reattore dimostrativo in grado di immettere energia elettrica in rete. Il nostro obiettivo è di riuscire a fare questo entro il 2050”.
Dottoressa, perché l’esperimento del Jet è importante?
Le reazioni di fusioni nucleari del Jet hanno generato una grande potenza: 11 megawatt. Inoltre siamo stati in grado di produrre il processo per un tempo lungo, pure se solo per 5 secondi. Se non sono sostenute, le reazioni di fusione si spengono anche prima. Jet è una macchina vecchia e non era possibile allungare il processo per un tempo superiore.
Sempre Jet, 25 anni fa, ha prodotto una fusione. Stavolta però l’energia prodotta è stata doppia?
No, è stata quasi tripla. Ma è vero, è stato raggiunto un record. Il risultato ottenuto con Jet ci dà fiducia. L’esito è di buon auspicio per Iter, un esperimento a cui concorre quasi tutto il mondo. La tecnologia in questo altro reattore in costruzione in Francia è nuova e non ci saranno limiti temporali per il processo fino a un’ora. La macchina in questo caso è stata progettata per produrre fino a 500 megawatt di potenza di fusione. Jet è stato un grande sforzo comune da parte dell’Unione europea ma Iter sarà un grande esperimento per l’umanità: due terzi del mondo collaborano insieme per realizzarlo. Non ricordo un’altra impresa così grande.
Perché diciamo che dalla fusione avremo energia pulita? C’entra la differenza fra la fusione e la fissione?
Sono due processi nucleari opposti. Nella fissione, i nuclei pesanti, come l’uranio per esempio, in determinate condizioni, si rompono liberando una grande quantità di energia che nei reattori viene usata per produrre energia elettrica. Nella fusione invece gli elementi più leggeri, come i nuclei di idrogeno, si fondono per creare elementi più pesanti. Anche in questo caso, si libera una grande quantità di energia. È lo stesso processo che alimenta il sole e le stelle. Vogliamo riprodurlo per ottenere una fonte di energia, come ad esempio l’elettrica, a scopi civili. Nel sole gli atomi di idrogeno si fondono per liberare tanta energia. In laboratorio, nello specifico, usiamo due varianti dell’idrogeno, il deuterio e il trizio. Poiché non possiamo ricreare le stesse condizioni esatte, scaldiamo l’idrogeno sotto forma di gas a una temperatura circa dieci volte più elevata del centro delle stelle, visto che le densità sono più basse. Cerchiamo di intrappolare il gas a centocinquanta milioni di gradi per mezzo di una gabbia magnetica di opportuna configurazione, costituita da grandi magneti che tengono confinato il gas lontano dalle pareti della camera per non scioglierle.
E la fusione non produce scorie radioattive.
Nel caso della fissione le scorie sono dei frammenti fortemente radioattivi. Nella fusione, non ci sono scarti radioattivi anche se il problema non è completamente azzerato. Nel processo, infatti, si producono neutroni che vanno a sbattere sulla camera di reazione e rendono radioattivi i materiali interni. Nel programma di lavoro, stiamo sviluppando dei materiali a bassa attivazione che possano consentire, al termine della vita del reattore, un decadimento della radioattività nell’arco di circa 150 anni, senza perciò la necessità di individuare dei siti permanenti dove confinare i materiali residui.
Quali saranno i passi successivi?
In Europa esiste una road map sull’energia da fusione. Anche l’Enea fa parte di un consorzio chiamato Eurofusion che raccoglie tutti i Paesi europei in cui lavorano più di 4mila scienziati. Il consorzio ha il compito di attuare il programma che prevede la costruzione di Iter e poi la sperimentazione con cui dimostrare che possiamo produrre più potenza di fusione di quanta ne usiamo per sostenere il processo. Useremo infatti 50 megawatt e ci aspettiamo che ne generi 500, cioè dieci volte l’energia investita. Per fare Iter abbiamo già sviluppato parecchie tecnologie ma in parallelo dobbiamo continuare a svilupparne altre che ci permettano di avere un reattore dimostrativo in grado di immettere energia elettrica in rete. Il nostro obiettivo è di riuscire a fare questo entro il 2050.
È un obiettivo fattibile?
Non vedo ostacoli insormontabili. C’è molto da fare. Ma ho fiducia, ce la faremo.
Visto l’interesse a livello globale per abbandonare le fonti fossili, è possibile sperare in una accelerazione?
C’è molto coinvolgimento sulla fusione e anche diverse società sono interessate. Tutto ciò è positivo. Mi auguro l’accelerazione ci sia. Le sfide non sono insormontabili, ho fiducia.
Qual è stato l’apporto italiano?
L’Italia lavora alla fusione da diversi decenni e ha nel tempo sviluppato moltissime competenze. Al consorzio Eurofusion, Enea partecipa coordinando circa venti istituti, fra cui il Cnr, Infn, molte università e alcune industrie. Siamo i secondi contributori del consorzio dopo la Germania. Iter usa i cavi super conduttori sviluppati nei nostri laboratori, costruiti in parte da industrie italiane. E anche la metà dei magneti sono stati costruiti dalle nostre imprese. Abbiamo sviluppato molti componenti critici, come per esempio il componente interno alla camera di reazione, dove viene convogliata parte della potenza di fusione. Questo componente, chiamato divertore, subisce un flusso di calore pari a quello che avrebbe sulla superficie del sole. La nostra ricerca è un esempio di circolo virtuoso in cui i laboratori dove si fa innovazione e le industrie collaborano con la generazione di un ritorno economico per il Paese. Nel programma europeo c’è inoltre l’obiettivo di sviluppare soluzioni alternative al divertore che potrebbe non essere sufficiente. In Italia stiamo partendo perciò con un nuovo esperimento di fusione, chiamato Dtt, che è in costruzione a Frascati e vede la collaborazione fra l’Enea, l’Eni e vari istituti di ricerca e università. Questo per dare la cifra dell’impegno italiano nello sforzo europeo.