M. Chiara Biagioni
“La nostra Chiesa è fraterna. Anche se dall’interno vediamo spesso il rovescio della tela, coi suoi nodi e i suoi fili che sembrano andare in tutte le direzioni, è l’immagine che diamo, e quest’immagine non solo è vera ma è anche una parte importante della nostra testimonianza”. Con queste parole, il nuovo arcivescovo di Algeri, Jean-Paul Vesco, descrive la Chiesa cattolica in Algeria. A Firenze, all’incontro dei vescovi e dei sindaci del Mediterraneo, l’arcivescovo rappresenterà questo Paese dove, secondo le statistiche, i cattolici sono circa 5.000, pari a meno dello 0,01% della popolazione, in stragrande maggioranza islamica. “Questa fratellanza – aggiunge mons. Vesco – la viviamo nelle nostre comunità parrocchiali, con i nostri fratelli e sorelle migranti, soprattutto quando andiamo a trovarli in prigione. La viviamo con gli abitanti di questo paese. È la vocazione particolare della nostra Chiesa. Come cristiani e come Chiesa con uomini e donne di religione musulmana. È una fratellanza che tende la mano al di là dei pregiudizi religiosi e delle ferite della storia”. Nella sua Lettera pastorale, l’arcivescovo scrive: “la nostra Chiesa viene di continuo interrogata, e si interroga a sua volta, sul perché è presente qui, in un paese praticamente senza cristiani?”.
Eccellenza, quale risposta vi siete dati a questa domanda?
Per noi, quanto il papa ha scritto nella Enciclica Fratelli Tutti, quanto poi è stato ribadito nel Documento di Abu Dhabi del 2019 e ancora tutti segni di fraternità compiuti dal Papa in questi anni, ci indicano il senso e la ragione della nostra presenza qui. La fraternità è un valore evangelico ed una testimonianza forte. Il nostro annuncio è la nostra vita. Non nascondiamo ciò che siamo e ciò in cui crediamo ma siamo consapevoli di rivolgerci a persone che hanno a loro volta una fede che è diversa dalla nostra. Siamo quindi credenti tra altri credenti. E questo è un aspetto essenziale della nostra presenza.Possiamo parlare ma il dialogo non è verità contro verità. La fraternità non ci chiede di capire chi ha torto e chi ragione ma scoprire insieme come la nostra fede, ciascuno la sua, ci permette di essere veramente fratelli e sorelle.
E quali frutti porta questo dialogo fondato sulla fraternità?
Più che guardare ai frutti, abbiamo piuttosto l’impressione di seminare e talvolta anche di raccogliere poco. I frutti sono percettibili soprattutto nelle relazioni interpersonali, nelle amicizie che si creano. Certo, le nostre società continuano a fare resistenza a queste dinamiche di fraternità. Le paure ci sono, difficilmente si riescono a superare, ma non dobbiamo perdere di vista anche ciò che attorno a noi si muove. Nel 2018, per esempio, abbiamo potuto celebrare al Santuario di Notre-Dame de Santa Cruz di Orano la beatificazione del vescovo Pierre Claverie e di altri 18 martiri, uccisi in Algeria tra il 1994 e il 1996, vittime della violenza che si era scatenata in quel periodo nel Paese. Era la prima volta che si è potuto celebrare una messa pubblica in una società musulmana.Sappiamo che le cose non cambiano facilmente e che le relazioni islamo-cristiani sono complesse ma ci sono piccoli passi e ogni passo in avanti ci indica che il cammino, nonostante tutto, prosegue.
Come cristiani di Algeria, cosa vi aspettate?
La mia aspettativa più profonda è che la differenza religiosa non sia più così strutturante nella vita di una società, che possa essere vissuta nel rispetto e nella accettazione profonda dell’altro, anche nella diversità della sua fede religiosa.Come Chiesa e in quanto cristiani, siamo ancora considerati come stranieri. Vorremmo poter essere riconosciuti come essere umani, fratelli e sorelle di questo popolo, cittadini di questo Paese. Il riconoscimento della nostra cittadinanza non è per noi una rivendicazione politica ma la convinzione che una società è forte quando ha la capacità di accettare e aprirsi alla differenza e questo è vero per tutte le società del mondo perché dappertutto stiamo assistendo ad una paura generalizzata dell’altro e alla tentazione di richiudersi.
A Firenze ci saranno vescovi e sindaci delle città che si affacciano sul Mediterraneo. Che cosa si aspetta da questo incontro?
La nostra Chiesa si estende tra la costa del Mediterraneo e il Sahara. Dalla nostra prospettiva, il Mediterraneo non costituisce una frontiera. Dal punto di vista storico, culturale, geografico ma anche per la fauna e la flora, i popoli che si affacciano su questo Mare, hanno molte cose in comune. Condividiamo lo stesso clima e spesso anche le stesse tradizioni.Questi tratti comuni rappresentano le radici sulle quali oggi poggiano le nostre fedi cristiane e musulmana.Siamo noi ad aver creato le frontiere, quelle tra le differenze religiose, tra l’Occidente e il mondo arabo musulmano, tra il Nord e il Sud.Il Papa ha spesso denunciato il fatto che il Mar Mediterraneo sia divenuto il più grande cimitero a cielo aperto d’Europa. Quale eredità lasciano queste morti?
A Santa Cruz di Orano dove è stata celebrata la messa di beatificazione dei 19 martiri, il santuario mariano si affaccia sul mare. Si sta costruendo proprio lì un memoriale per tutti coloro che sono morti in mare e la frase sarà: “in memoria di coloro che sono morti in mare senza sepoltura ma non senza speranza”. La loro testimonianza come anche la testimonianza dei martiri in Algeria è che la vita è più forte della morte e che la fraternità vincerà.Non c’è altra scelta. Non c’è altra opzione. Come dice papa Francesco la fraternità è la nuova frontiera dell’umanità. Scoprirsi fratelli e rispettarsi nelle nostre differenze. L’alternativa alla fraternità è la distruzione.
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